Marta che guardaHunger, di Steve McQueen

Lo dico subito, chiaro e tondo: Hunger è un film meraviglioso e potente. Il più potente che io abbia visto quest'anno, anche se è un film del 2008, uscito solo ora in Italia per non si capisce qual...

Lo dico subito, chiaro e tondo: Hunger è un film meraviglioso e potente.
Il più potente che io abbia visto quest’anno, anche se è un film del 2008, uscito solo ora in Italia per non si capisce quali motivi.
Hunger è un film duro, secco, poetico, dolorosissimo, filosofico, commovente.
Girato da quel genio artista di Steve McQueen, che poi ha fatto Shame e lì si è perso via, racconta l’ultimo periodo della reclusione in carcere di Bobby Sands, il combattente dell’IRA morto in prigione – il famigerato Maze (Labirinto) vicino a Belfast – dopo uno sciopero della fame durato più di due mesi e diventato poi il primo e più amato eroe dei repubblicani nord irlandesi, al punto che ancora oggi Falls road a Belfast è tutto un murales dedicato a lui, rappresentato come un Cristo solare e sorridente.
Quella dello scontro tra una Margaret Thatcher irremovibile e gli appartenenti dell’IRA rinchiusi in quel carcere infernale è una storia di soli trent’anni fa, ma già dimenticata, almeno in Italia. Perché in fondo non ci riguarda e non ci riguardava nemmeno allora. Eppure è una storia che tutti dovrebbero conoscere perché è una storia di lotta, di violenza, di fede assoluta in un ideale, e anche di ottusità politica: è una di quelle tragedie da cui si dovrebbe imparare, anche se raramente succede.
Hunger è un film che poi ti fa venire voglia di sapere, di scavare, di informarti. E questo è già un bene.
Ma è anche un film cinematograficamente perfetto. Fatto di silenzi farciti di frastuono solo quando serve davvero.
È un susseguirsi di immagini che sono opere d’arte, per quello che mostrano e per quello che dicono.
È un film carnale, nel senso che non solo è una riflessione sul corpo come ultima ed estrema arma di lotta, ma anche perché i protagonisti delle riprese sono la carne il sangue gli escrementi dei prigionieri, che chiedono invano di essere riconosciuti come prigionieri politici.
Protagonista è la loro materia biologica in decomposizione e marcia, come marcio era lo scontro tra inglesi e irlandesi, tra repubblicani e lealisti, tra Sands e la Thatcher, di cui si ascolta la voce fredda e lontana, impegnata in discorsi ufficiali e sordi.
Hunger però è anche un film denso di poesia, che avvolge un Bobby bambino così come il suo carceriere che fuma sotto la neve.
È un film denso di umanità, anche quando indaga i personaggi minori, il carceriere e sua madre, il picchiatore paralizzato dalla disperazione, l’infermiere…
Ed è un film concettuale: indimenticabile e da riascoltare più volte il dialogo che è filosofia tra Sands e il prete divorato dal tormento alla vigilia dell’inizio dello sciopero, dove si parla di morte, di vita, del confine sottile che esiste tra suicidio e omicidio, dove si parla di valori e di senso, e dove tutto è deciso e forse perduto.
Bobby Sands infine è un Michael Fassbender gigantesco, che sta dimostrando prova dopo prova di essere il migliore attore del momento (basta guardarlo in questo video virale che promuove Prometheus, il suo prossimo film dove interpreta un robot dal cuore tenero) e che per Steve McQueen si immola per incarnare (o disincarnare) un Bobby Sands agonizzante, fatto di ossa, piaghe ed enormi occhi.
Non si esce indenni dal cinema. Ma più che nella pancia, come si potrebbe pensare, questo film si incaglia nel cervello e negli occhi, aprendo domande, sete di sapere e visioni da ripercorrere.

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