Quello che sta accadendo con lo shale gas rischia di essere una vero punto a capo. È di qualche giorno fa l’ultimo rapporto dell”Agenzia internazionale per l’energia (Iea) dove si legge che «grazie alla rivoluzione dello shale gas, nel giro di cinque anni gli Stati Uniti potrebbero strappare alla Russia il primato della produzione di metano». Roba da saltare sulla sedia. E si capisce allora perché l’ex direttore di Newsweek, l’indiano Fareed Zakaria, chiami questo tipo di gas, estratto dalle rocce col metodo del fracking, «il cambio di gioco nella geopolitica dell’energia» in un’analisi che vi consiglio. Sottolinea Zakaria che «finora il gas è stato fornito da un manipolo di regimi – Russia, Iran, Venezuela – molti dei quali feroci e privi di legittimità, che campano su quell’instabiità globale che aiuta i loro fatturati visto che instabilità significa prezzi più alti per gas e petrolio».
E qui viene il bello: «nei prossimi 20 anni molta dell’energia potrebbe venire da Paesi democratici come gli Usa, il Canada, l’Australia, la Francia e Israele. Il che sarebbe buono per il mondo libero e cattivo per gli Stati canaglia […]. La Cina ha grandi riserve di shale e, anche se non è democratica, è un paese che necessità di stabilità, non di instabilità».
Il problema, ammette, è che c’è una «significativa lobby che si oppone allo shale e al modo in cui è prodotto». In Italia ad esempio sia gli ambientalisti che l’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (Enea) storcono il naso. Infatti l’Enea, riprendendo le conclusioni della stessa Iea, parte dal presupposto che la tecnica del fracking utilizzata per estrarre lo shale gas abbia principalmente due problemi: causa microsismi e comporta lo sprigionamento incontrollato in atmosfera di gas metano, in aperto contrasto con ogni tentativo di ridurre i cambiamenti climatici e il surriscaldamento della Terra. Morale: per la green economy si aspettano tempi duri e, ammoniscono i critici, il periodo d’oro del gas, se non sarà finalizzato agli obiettivi della de-carbonizzazione, protrarrà nel tempo la dipendenza dell’umanità dai combustibili fossili invece che svincolarla.
L’argomento può allora essere davvero di quelli che possono davvero cambiare gli equilibri. Gli Usa, che nel solo 2011 hanno incrementato l’output del combustibile di una quantità pari alla metà delle forniture annuali del Qatar, secondo la Iea resteranno un importatore ma solo per quantitativi irrisori (10 miliardi di mc mentre nel solo 2011 ne ha prodotti per 653 miliardi di mc). E l’Europa? Come scrive Zakaria qualcosa si muove fra Polonia e Francia ma potrebbe esserme dannegiata. Scrive infatti ancora la Iea che sul lungo «l’industria europea deve confrontarsi con prezzi del gas 3-4 volte superiori rispetto agli Usa, che diventano ora un nuovo concorrente in settori come la petrolchimica e la produzione di fertilizzanti». Aggiungendo che in Europa le prospettive di sviluppo dello shale gas sono «sconfortanti» principalmente proprio per l’opposizione alle tecniche di fracking.
Il boom dello shale, tanto per intenderci, è lo stesso che ha permesso all’Argentina la mossa populista di nazionalizzare il petrolio. Secondo la Iea infatti Buenos Aires ha le terze riserve al mondo di shale e quindi la Kirchner crede che gli investitori continueranno a non mancare alla sua porta, anche se regolarmente maltrattati. Insomma rischia davvero di cambiare tutto. E che l’Europa, già logorata dal debito, si ritrovi ad essere ancora meno competitiva sui prezzi energetici. Un tema fondamentale per noi italiani visti i nostri costi di approvvigionamento. Che riapre anche la domanda sulla validità della politica estera italiana negli anni di Berlusconi, così incentrata sulla Russia, e sul suo di gas, da averle fatto da reggi bastone in molte partite.