Finché, d’improvviso, ti ricompare davanti agli occhi l’immagine aggraziata e trendy dei giapponesi.
È appena uscito in Italia il libro Lo Zen di Steve Jobs, edito da Rizzoli, con prefazione di Luca Sofri, un manga in cui si racconta l’influenza che il Giappone ha avuto sul guru della Apple. Che è stata notevole: dalla filosofia zen (per esempio attraverso il concetto di miyabi e quello di ma) all’estetica (era un fan dello stilista Issey Miyake) fino all’ammirazione per il modello industriale giapponese.
A volte mi dimentico questi aspetti della cultura giapponese che pure mi affascinano – esattamente come capita di passare davanti, che so, a Castel Sant’Angelo o al Colosseo stesso, senza prestare davvero l’occhio, e magari solo maledicendo il traffico. Nello stesso tempo, bisogna guardarsi bene dal pensare che tutti i giapponesi siano geek o fissati con la tecnologia e i nuovi media.
Anni fa, con il corrispondente del momento, rimasi alquanto turbata dalle sue invettive millenaristiche e conservatrici contro Facebook e Twitter: si vantava di non averli mai usati, di non sapere come funzionassero e di non volerci nemmeno provare. Salvo poi dirmi in altre occasioni che un giornalista deve sperimentare tutto – voleva per esempio convincermi che per scrivere di armi in America non potevi non aver provato a usare un’arma, che se non mettevi le mani sul calcio di una pistola o di un fucile non avresti mai compreso come il possesso di un’arma da fuoco fosse parte integrante della mentalità americana e trovasse una sua naturale e finanche legittima spiegazione negli immensi spazi aperti di alcuni stati Usa. Obiettavo che queste cose forse si potevano comprendere anche senza prendersela con delle inermi lattine o con dei segnapunti da poligono, ma ero ancora nella fase dell’apprendistato e dunque le mie motivazioni avevano su di lui l’efficacia di un urlo nella notte di un sordomuto.
Oggi la fase della gavetta si è ampiamente conclusa, ma con l’attuale capo – anche se non definirei il nostro un cattivo rapporto – ci si limita a una più generale indifferenza e a un mutismo di fondo.
Tornando all’esaltazione per le cose giapponesi, nello stesso giorno puoi leggere della sobrietà zen della Apple e della miseria di una campagna pubblicitaria dell’agenzia nucleare giapponese. Come riporta l’agenzia di stampa giapponese Kyodo, ripresa poi dalla Reuters, solo ieri la JAEA ha eliminato dal suo sito la pagina web di una campagna pubblicitaria che serviva a spiegare la radioattività. Nella pagina – che raffigura una donna che grida e tiene il pugno alzato – la radioattività viene paragonata alla rabbia della casalinga e la donna stessa a materiale radioattivo. Né consola il fatto che la campagna sia stata pensata da sei donne. Anzi, ciò che risulta ancora più irritante è che l’iniziativa fosse rivolta proprio alle donne: la JAEA si è giustificata dicendo che l’obiettivo era quello di rendere il linguaggio scientifico meno difficile da comprendere.
Più che una strategia comunicativa adatta a un paese avanzato, sembra la raffigurazione di Santippe.
5 Giugno 2012