Roberta Badaloni è giornalista del TG1. Attualmente in redazione “società”, si occupa, come dice lei stessa, di “porgere il microfono a chi altrimenti rimarrebbe inascoltato”.
Leonardo: Roberta, da sempre ti occupi di documentare le situazioni più complesse – direi di far emergere “il sommerso” della società. Cosa ti ha spinto principalmente a condurre in questo modo la tua attività giornalistica?
Roberta: La mia redazione tematica di appartenenza al tg1 è proprio la “società'” e quello dunque, è il mio campo d’azione.
La mia formazione professionale passa poi attraverso tanti anni di lavoro a tv7 e a “Speciale tg1” dove si realizzano inchieste e dove il compito di un giornalista è proprio quello di documentare gli aspetti più’ nascosti di una realtà, di una situazione o di un fenomeno sociale .
Quest’anno ho lavorato molto sia per il tg che per gli speciali, sull’emergenza carceri che nel nostro Paese ha raggiunto livelli drammatici. L’italia dei detenuti è certamente un emblema di quello che tu chiami “il sommerso”; situazioni che si snodano in contesti a volte inimmaginabili e la cui denuncia è spesso relegata in fredde serie di numeri come il sovraffollamento e la ben inferiore, capacità ottimale.
È solo dall’interno che percepisci davvero che quei numeri hanno volti , sguardi e vite complicate che meritano ben altre denunce ed attenzione; quella attenzione che restituisce identià’ perdute a percorsi di dolore. Mi è capitato e in contesti diversi che gli intervistati a fine riprese mi si avvicinassero per appellarsi alla mia onesà’ professionale..
Quelle frasi, del tipo : “la prego sia sincera nello scrivere il pezzo” mi hanno fatto sempre molto riflettere. In realtà non e’ il rigore narrativo dei dettagli a cui pensano ma alla speranza che venga sinceramente colta e raccontata la loro sofferenza.
È quando ti accorgi che per qualcuno hai il valore di una speranza che si era abbandonata che capisci che il tuo posto è esattamente quello dove sei e che forse il giornalismo per me non poteva intraprendere strade diverse.
Leonardo: Tra i temi che hai affrontato c’è quello dei diritti animali. Ti sei avvalsa della collaborazione di alcune associazioni animaliste e realizzato report in luoghi complessi come gli allevamenti. Cosa si prova a documentare l’inferno degli animali? E, ancora più di preciso, come fai a far capire che si tratta di un inferno?
Roberta: È un mondo che mi ha sempre affascinata quello degli animali e fin da bambina non ho mai dubitato della loro natura di esseri senzienti, meritevoli di rispetto e protezione. Per la nostra società sono soggetti di diritti eppure gli abusi perpetrati nei loro confronti non conoscono tregua anzi ogni anno si arricchiscono di fantasie criminali che raramente vengono perseguite e punite.
Provo sgomento quando visiono per esempio un filmato sul bracconaggio. Non riesco davvero a concepire quale meccanismo mentale possa rendere pacifico per qualcuno l’intrappolare un uccellino in una rete per poi appenderlo su un ramo a testa in giù. Vedi quell’ esserino che impazzisce dimenandosi mentre diventa l’esca viva, ovvero il richiamo per altri uccellini sfortunati come lui. Provo vergogna di appartenere al genere umano quando mi capitano foto di quel che resta di cani dopo aver subito uno stupro umano in quel devastante fenomeno che si sta espandendo soprattutto nel nord Europa.
Ho provato orrore quando lo scorso anno mi arrivarono le prime immagini della strage di cani in Ucraina per gli Europei di calcio. Ho visto bambini disperarsi in strade sommerse da corpi di cani uccisi o ancora rantolanti. In un recente blitz del corpo Forestale dello Stato in un canile nelle campagne romane, mi ha colpito una sequenza che difficilmente potrò dimenticare.
Una lupa allo stremo delle forze, denutrita e terrorizzata che tentava di difendere il suo ultimo cucciolo da chiunque provasse ad avvicinarsi. Mi spiegarono che in quella struttura i cani non venivano sterilizzati come previsto dalla legge che stanzia per questo fondi pubblici. Il piano di controllo delle nascite si attuava quindi attraverso la sottrazione forzata dei cuccioli che con noncuranza venivano poi gettati in secchi d’acqua sotto lo sguardo straziato e impotente della madre.
È vero: è un inferno e per raccontarlo non credo che ci siano parole più’ eloquenti delle immagini se pur doverosamente ripulite dalle scene più cruente. Ma far capire non vuol dire necessariamente responsabilizzare da una diffusa indifferenza e questa è ben altra e più difficile impresa.
In Italia spesso le questioni che riguardano gli animali e i loro diritti violati subiscono il peso di un disinteresse culturale figlio di una sorta di alibi di pensiero che allontana ogni problema sul presupposto che ne esista sempre un altro di più grave. Se l’inferno è animale allora bisogna accantonarlo in nome di quello umano. Non è ancora ben chiaro che non esiste alcun antagonismo o conflitto di interessi tra diritti umani e animali e soprattutto non è chiaro che il rispetto per quest’ultimi non nega e non limita la dovuta attenzione ai primi.
Anzi, personalmente lo ritengo un meccanismo di pensiero pericolosissimo perché abitua alla violenza e la normalizza nel nostro immaginario. Ogni tanto mi capita di incappare in moniti dalle logiche confuse che inneggiano all’indifferenza verso imprecisati animali per salvare altrettanti imprecisati bambini. Un invito all’indifferenza verso un essere debole e incapace di difendersi è molto insidioso perché fomenta una cultura di sopraffazione dei più forti con il rischio che poi si riversi verso tutte le specie e non solo quelle animali. Francamente non ho mai conosciuto tra gli animalisti persone disattente alle questioni umane anche se questa è la più frequente e banale accusa che viene mossa nei loro confronti.
Agli allevamenti abbiamo destinato lo scorso anno una serie di pezzi in cui abbiamo spiegato le dinamiche delle produzioni “intensive”, avvalendoci anche delle investigazioni degli attivisti della associazione “Oltre La Specie”. Gli allevamenti però necessitano di un discorso a parte.
Bisogna prima di tutto distinguere tra allevamenti a norma e non. Questi ultimi, più volte denunciati in rapporti di zoomafia vanno condannati a prescindere. Non solo per le violenze agli animali ma anche perché rappresentano un pericolo per il consumatore. Per farci una idea di cosa parliamo ti riporto la notizia che proprio ieri mi è capitato di leggere sull’agenzia stampa Geapress che mostrava la foto di un vitellino maschio gettato vivo in un cassonetto. Sembra arrivasse da un allevamento di vacche da latte dove evidentemente il vitellino maschio non serviva.
Gli allevamenti a norma (e quelli italiani sono tra i migliori d’europa) hanno tra le regole anche quelle relative al cosiddetto benessere animale. Certo si potrebbe aprire un infinito dibattito su questo punto perché e intuibile quanto sia complesso riuscire a concepire, individuare e a standardizzare in norme scritte seppure da esperti, il “benessere” di un animale senziente nato, allevato ed ingrassato solo per essere ucciso ; una morte di cui purtroppo ogni singolo animale ha chiara percezione già’ nel momento in cui inizia il suo viaggio verso il macello. Queste pero’ sono questioni che attengono alla sensibilità’ e alla dimensione etica di ognuno ed al valore che ognuno di noi da alla vita di un animale. Si tratta di una questione ampiamente discussa da tempo e che contrappone in modo sempre più marcato i consumatori di carne da chi per scelta etica l’ha eliminata dalla propria dieta.
Il mio dovere di giornalista è quello di rappresentare tutte le posizioni.
Leonardo: Domanda secca: hai trovato molte resistenze per il tuo lavoro così attento ai diritti di chi non ha diritti?
Roberta: …e in modo altrettanto secco ti rispondo: no, almeno finora.
Leonardo: Un’ultima domanda. Cos’è per Roberta Badaloni il giornalismo oggi?
Roberta: Quello che era ieri e che spero sia ancora domani: porgere il microfono a chi altrimenti rimarrebbe inascoltato.