Leggendo uno dei libri che mi ha affascinato di più ultimamente (Carl Whitaker, Danzando con la Famiglia Astrolabio, pag. 63), riflettevo su un passo. Ve lo riporto integralmente:
“C’è in realtà un solo modo per ‘capire’ il mondo complesso di impulsi e simboli; si deve guardare in se stessi. Solo quando sappiamo veramente identificare un certo impulso basilare in noi stessi siamo sicuri che esiste. Solo a quel punto diventa reale; fino ad allora era soltanto un buon concetto o una teoria, di ben poca utilità. Credo che la formula funzioni anche al’inverso: se non riusciamo a trovarlo in noi stessi, esso non esiste a fine pratici. Se non siamo mai stati in grado di identificare e affrontare i nostri impulsi omicidi, non saremo realmente capaci di credere che esistono, comunque non nelle persone ‘normali’. Quindi, per definizione, chiunque ammetta di avere impulsi del genere sarebbe anormale secondo le tue norme interiori nascoste.
Io credo nell’esatto opposto; credo che parte della condizione umana sia l’avere una ricca e spumeggiante vita interiore piena di impulsi. Tutti abbiamo pulsioni omicide, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrificati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliare fuori buona parte della nostra umanità.
La consapevolezza del nostro mondo di pulsioni è in effetti il requisito essenziale alla nostra capacità di vedere, e ancora di più di capire, il mondo simbolico degli altri. Nella misura in cui possiamo affrontare le molteplici manifestazioni simboliche dei nostri stessi impulsi saremo liberi di utilizzare questa capacità nei rapporti con gli altri.”
Anche se scritto facendo riferimento alla realtà professionale del terapeuta, credo assolutamente che questo dovrebbe essere la linea guida fondamentale non solo di ogni professionista che si accinge a fare questo mestiere, ma di ogni essere umano. Fa riferimento alla capacità di riconoscere, maneggiare, individuare i nostri impulsi più reconditi. Soprattutto la capacità di riuscire ad attribuirceli. Credo sia un lavoro molto difficile da fare, soprattutto per quegli impulsi che ricevono la riprovazione sociale. Quegli impulsi per cui, non vedendoli in noi e attribuendoli all’altro, magari con le qualifiche di ‘brutto’ o ‘sbagliato’, ci possiamo sentire in dovere di giudicare. Di condannare. Per cui, non riconoscendoceli, possiamo sentirci migliori.
Niente di più fuorviante per riuscire a leggere la complessa realtà dell’altro.
Solo nel momento in cui siamo consapevoli di ciò che è nostro, possiamo meglio vedere cosa sia dell’altro. E questo può portare semplicemente a riconoscerlo. Senza attribuire. Senza affibiare. E, forse, senza giudicare.
A presto…
Questo articolo è stato pubblicato anche sul mio blog. Se vuoi leggere altri post clicca su:
fabrizioboninu.blog.tiscali.it
Tutti i diritti riservati