C’è chi le chiama “cinema di serie B” e chi invece tra una bella serie TV e un bel film sceglierebbe sempre e comunque la prima. Io, rientro in questa seconda categoria. Sarà che amo il ritmo, frenetico, che solo un contenitore di 30-40 minuti sa offrire. Sarà che mi piace lasciarmi addomesticare (come la volpe con il piccolo principe) dai personaggi, aspettare con ansia che passi la settimana, prima di rivedere le loro avventure. Sarò anche un po’ masochista – direte – perché amo persino l’attesa tra una stagione e l’altra, quella lunga pausa che dura un anno, durante la quale sono combattuta tra la voglia di sapere come evolverà la storia e l’estasi per i cliffhanger ben fatti. Su quelli rimugino giorni e giorni, a volte anche per settimane. Tant’è, sono gusti. Su questo c’è poco da dire.
Eppure riconosco un limite che la serialità televisiva ha, rispetto al cinema. Le serie TV hanno una data di scadenza, il cinema no.
I film hanno il vantaggio di essere eternamente godibili: una pellicola retrò “ben fatta” può essere apprezzata ancora oggi. Per le serie TV il discorso è diverso e la cosiddetta data di scadenza c’è. Varia da serie a serie, in alcuni casi è tutto sommato recente (una decina d’anni), in altri è più lunga, ma comunque c’è. Chiedete ai giovani di oggi (anche appassionati seriali che non si perdono una puntata delle nuovissime serie americane e inglesi) di recuperare i grandi classici del passato. Un esempio? MASH. Storcerebbero il naso. O nella migliore delle ipotesi lo troverebbero “carino, ma niente di che”. Eppure ai tempi (anni settanta-ottanta) MASH era un’icona. Ma di esempi ne troviamo parecchi: penso a The West Wing (vero e proprio capolavoro) o persino a Beverly Hills, che gli adolescenti di oggi reputano noiosissimo in confronto alle intricate (e – lasciatemelo dire – anche un po’ ridicole) trame dei teen moderni. Ma io non faccio testo, io con Beverly Hills ci sono cresciuta: io l’ho visto allora, negli anni Novanta, quando il telefilm di Aaron Spelling era rivoluzionario, innovativo, capostipite di un genere.
Succede paradossalmente anche con Lost: sulla pagina Facebook de L’Accademia dei Telefilm più volte mi sono imbattuta nei commenti di persone che stanno recuperando oggi la serie di JJ Abrams e che ne rimangono un po’ delusi, chiedendosi come mai chi l’ha visto in tempo reale (dal 2004 al 2010) ne sia rimasto così folgorato. Lost, tutto sommato, ha una data di scadenza piuttosto recente. Molto più lunga, invece, quella di Twin Peaks: il visionario Lynch sembra essere l’unico a trovare adepti a oltre 20 anni di distanza.
Per i film è diverso: una tantum di due ore catapultati in un mondo retrò con sceneggiature e regia primordiali non solo si sopportano, sono persino piacevoli. I classici del grande schermo (da Tempi Moderni a Colazione da Tiffany) – gusti permettendo – non vanno mai fuori moda. Tante puntate e tante stagioni, invece, si digeriscono a fatica.
La TV seriale è legata all’attualità e questa è la sua arma a doppio taglio: cresce con noi, segue il nostro presente, e suona “stonata” quando non ci ritroviamo in ciò che racconta. Ecco perché c’è un tempo limitato per apprezzarla. Ed ecco perché quel tempo, io, non me lo voglio perdere.
Confessioni di una serie-TV dipendente.