FuoriserieL’estetica telefilmica: il caso Girls

C'è una cosa che non ho mai capito, dei critici d'arte e dei critici televisivi: quali siano criteri del bello, perché e quando un quadro o una serie televisiva vengono definiti opera d'arte. Me lo...

C’è una cosa che non ho mai capito, dei critici d’arte e dei critici televisivi: quali siano criteri del bello, perché e quando un quadro o una serie televisiva vengono definiti opera d’arte. Me lo chiedo in questi giorni quando tutto il mondo (telefilmico) si divide su Girls.

Tra l’opinione pubblica c’è chi inneggia al capolavoro e chi invece all’obbrorbio, spingendo in molti a ritenere che Girls (nuovissimo prodotto HBO, in onda in America dal 15 aprile) o la si odi o la si ami. La critica invece impazza: Girls è stata subito rinnovata per una seconda stagione. Premesso, una via di mezzo c’è, almeno per me: penso che Girls sia un prodotto interessante, ma niente di sconvolgente. E’ una di quelle serie che rientra tranquillamente nella categoria del godibile, che si lascia guardare, che offre qualche spunto di riflessione alternato a qualche momento di banalità (in particolar modo le scene della stereotipatissima Jessa).

Ma la vera estetica di Girls sta in tutto quello che la circonda e che trascende da ciò che vediamo sul piccolo schermo. Girls è creata, sceneggiata e persino recitata da una venticinquenne, Lena Dunham (che sul set veste i panni della protagonista Hannah), che ormai negli States è diventata la “girl” del momento.

Una ventenne che racconta una storia di ventenni: è questo il vero fascino della serie. Una giovane che, come dice il personaggio nella prima puntata, è “la voce della sua generazione, o di una generazione”.

Anche se poi – diciamocelo – è un racconto fallace. Un gruppo di ventenni figlie d’arte che raccontano i disagi di una generazione allo sbando, senza soldi, che tenta di sopravvivere nei quartieri anti-cool della Grande Mela. Non proprio realistico considerando che oltre a Lena c’è Zosia Mamet ( figlia dello sceneggiatore David Mamet), Allison Williams (figlia di Brian, famoso conduttore del telegiornale serale) e Jemima Kirke, figlia di Simon, batterista del gruppo Bad Company. Cosa c’entra?, direte. C’entra, perché nel momento in cui si inneggia al capolavoro si chiama in causa proprio questo aspetto, ovvero la capacità di una giovane di oggi di descrivere la situazione di un manipolo di donne alle prese con la crisi economica e con i disagi dell’essere squattrinate e di saperlo fare con grande realismo.

E’ il classico esempio di opera d’arte contemporanea che viene apprezzata, venerata e venduta a prezzi spropositati per il significato intrinseco che qualche critico dal nome altisonante ha voluto dargli. Poi, poco importa se l’opera di per sé non è nulla di entusiasmante.

Ecco questo è il grande dilemma estetico che investe anche la TV: se bello è solo ciò che vedo, Girls rimane un medio prodotto, a tratti teen con tutte queste scene di sesso estremizzate a tratti comedy con qualche battuta esilarante, nel complesso molto meglio di tante boiate che ci sono in giro ma nulla di eccezionale. Se la categoria del bello include tutto quello che si può dire dietro allo spettacolo esibito, beh allora Girls si ritaglia un suo spazio tra i prodotti più interessanti di quest’anno e in generale degli ultimi anni, anche solo grazie a Lena. Su quale sia da prediligere come opzione, ancora non mi è chiaro. Di certo, per dirla con Kant, l’estetica di Girls può tradursi solo su un piano soggettivo: siamo ben lontani dal bello naturale (oggettivo), dal sublime.

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