Dispacci d’OrienteMussolini kakka!

Nella lingua giapponese ci sono formule di rispetto complicatissime, il lessico cambia totalmente se a parlare è un uomo e una donna e bisogna fare estrema attenzione al contesto per orientarsi. Pe...

Nella lingua giapponese ci sono formule di rispetto complicatissime, il lessico cambia totalmente se a parlare è un uomo e una donna e bisogna fare estrema attenzione al contesto per orientarsi. Per mia fortuna in ufficio si parla inglese e di queste problematiche me ne sono sempre infischiata – anzi, con il tempo ho capito che ero totalmente refrattaria alle stesse e mi sono arresa alla mia schiacciante natura europea e occidentale che rifugge formalismi e cerimoniali troppo complessi. Così chiamo per nome i corrispondenti, come del resto loro fanno con me. Vige l’inespressa regola che lavorando in Italia si è in zona franca e c’è meno bisogno di rispettare il protocollo. Anche per loro in fin dei conti è un modo per rilassarsi e pian piano si adattano spogliandosi di qualche modo paludato e spingendosi persino, a volte, a dire ciò che pensano. Fargli dire no resta un’impresa: cercheranno sempre il modo più indiretto per farti capire un diniego, e io spesso non li capisco o li provoco apposta.

Fino a qualche settimana fa, ma solo per un periodo, ho potuto fare una sorta di esperienza etnografica di una relazione tra capo giapponese e giovane dipendente giapponese. Un ragazzo giapponese lavorava nel nostro ufficio.

Quando entrava nella stanza dove stavamo io e il corrispondente, era sempre molto riverente, se doveva dire qualcosa e magari il capo non alzava lo sguardo su di lui, aspettava come un cane paziente che attende il padrone per essere accompagnato fuori a fare i suoi bisogni. Aspettava finché quello non sollevava lo sguardo dandogli il nulla osta per parlare. È difficile spiegarlo a parole, perché si tratta di gesti millimetrici, di quantità sorprendenti di silenzi che hanno tutta una loro autonomia di significato, di movimenti rigidissimi del corpo e della testa che si inchina.

Io ho provato a stringere un minimo di rapporto con il suddetto ragazzo. Ma quando andavamo a mangiare qualcosa insieme mi assediava con i suoi silenzi e mi sembrava di violentarlo facendogli le domande anche più banali. Non avevo colto, ma mi è stato detto che il giovane si appellava all’anziano dandogli del Sama, un suffisso onorifico che va ben oltre il semplice San. Dovrebbe corrispondere a qualcosa come onorevole o venerabile e si usa nei contesti lavorativi, ma può essere usato anche per indicare le divinità, nientemeno. Quindi il mio rivolgermi in modo diretto doveva apparire ai suoi occhi piuttosto brutale. Benefici degli occidentali!

Mi viene in mente una divertente storiella che mi è stata raccontata tempo fa.Durante il fascismo, un artista giapponese arriva in Italia e ottiene il privilegio di essere ricevuto in udienza da Mussolini. Ad assistere c’è anche un giovane prete giapponese – che è poi colui che riporterà la storia ai posteri.
L’artista inizia il suo pubblico discorso: “Mussolini Cacca…”
Gelo degli astanti. Risatina sommessa dei pochi che conoscono entrambe le lingue.

Kakka sta per Sua eccellenza. Ma, in quest’associazione di termini, funziona perfettamente anche nella versione italiana.

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