Quando mi dicono “Ah, chissà quante meraviglie vedi a Roma!” sento addosso il peso di un concetto di mobilità che in Italia non si è mai agito a sufficienza.
Almeno un tempo c’era la leva militare e almeno ai ragazzi spettava un po’ di movimento per poi tornare a casa e almeno raccontare le cose viste in giro.
Spiegare che la Roma del Colosseo e San Pietro altro non è che un dettaglio nella città intera è vano.
Così mi arrabbio, perché c’è ben poco da invidare e allora riporto gli antichi romani alla loro era e la città alla sua dimensione storica raccontando pressapoco questa storia qui:
“Vivo a due chilometri da dove fu rapito Aldo Moro e la sua scorta fu assassinata. Poco più in su, vicino a dove lavoro, c’è una delle vie indicate come possibile covo delle BR.
Le volte che vado in centro passo per Primavalle, dove nel 1973 due bambini furono uccisi da un rogo di Potere Operaio. A un certo punto il bus si ferma su una piazzetta, dove una targa ricorda Mario Salvi, ragazzo legato ad Autonomia Operaia, ucciso in una manifestazione nel 1976 a soli 21 anni.”
Ecco, per scoprire chi fosse Mario Salvi a dir il vero ho dovuto interrogare per bene Google (chi sa le cose come stanno perché non aggiunge una voce su Wikipedia che racconti la vicenda e facilita le ricerche?) dopo aver letto per giorni una targa, passandoci davanti con il bus. Di quante altre targhe e vie mi sfugge la storia?
E questo solo a guardare un piccolo angolo di città.
Ma a voler girovagare e leggere tutti i manifesti che si trovano in giro ci sarebbe da commemorare qualcosa ogni settimana.
A ricordare anni incompiuti però si suscita sempre più fastidio che discussione. Quasi che anni tanto bui meriterebbero d’essere saltati di pari passo dalla memoria.
Mi chiedo come qualcuno possa chiamarle vicende concluse quando invece ancora sono tanto vive da riemergere ad ogni occasione con forza.
Mi rendo conto di come mai sia stato solo un caso che un libro come “Sia folgorante la fine” di Carla Verbano, mi sia capitato tra le mani appena uscito, qualche anno fa. Per caso ho scoperto la storia di suo figlio Valerio. Per caso, solo per caso, ho pianto tra le pagine di quella storia, fatta di tragedia e di giustizia non ancora compiuta, fatta anche di certi elementi che rompono una sorta di mitologia anni ’70 ancora diffusa. Fatta della ricerca della verità, a tutti i costi.
Non è una di quelle cose di cui a Pordenone ci si ricorda l’anniversario.
Così in questi giorni a leggere l’ANSA che riportava la notizia della morte di Carla Verbano mi è venuta una fitta al cuore: nell’Italia che in questi anni ha delegato a genitori e figli colpiti da profonde tragedie l’essere testimonianza e voce narrante di un periodo che troppo facilmente si vorrebbe chiudere e dimenticare, ecco, è stato come temere un altro “Perché?” senza risposta.
Ma leggendo poi dei funerali mi sono commossa a scoprire che lì, nel quertiere dove Valerio fu ucciso, c’è una palestra popolare che ne ricorda il nome e dove centinaia di persone sono accorse per i funerali di Carla Verbano.
E dai video su Youtube si vede che sono giovani, alcuni giovanissimi.
Di quelli determinati a non lasciare che le cose si chiudano, magari per poi ripresentarsi di nuovo, di quelli decisi, come hanno fatto fino ad oggi, a tenere in piedi il bisogno di verità.
Così, ecco, la prossima giornata che dedicherò alle mie esplorazioni romane, magari vado lì, in quel quartiere di memoria e concretezza.
Perché ho come l’impressione che nulla si risolva finché spetta soltanto ai luoghi e a chi li vive produrre il ricordo e cercare le verità.
Se non diventano esperienze e responsabilità collettive, di popolo, le vicende col tempo si affievoliscono.
Tanto più quando nell’Italia grande neppure esistono, se non per caso.
E forse è anche così che, ricordando un vecchio motto, fatta l’Italia si fanno gli italiani: ricordando che Roma ci riguarda non soltanto per gli antichi resti e per gli antichi romani.