I risultati delle elezioni egiziane recentemente diffusi richiamano alla memoria i disordini che avevano portato alla caduta del regime di Mubarak e al ruolo che i social network hanno avuto in questo processo in Egitto e negli altri Paesi coinvolti nelle rivolte in Nordafrica e Medioriente.
Fra i numerosi studi che hanno investigato questo fenomeno, ne ho individuati alcuni che offrono delle interessanti chiavi interpretative. Prima di entrare nel merito, però, può essere utile fornire qualche dato di scenario sulla diffusione dei social network in questa parte del globo. Qualche settimana fa Mashable ha pubblicato due infografiche relative agli utenti attivi di Facebook e Twitter in queste zone. Da essi si evince che lo 0,26% degli abitanti dell’Egitto, lo 0,10% di quelli della Tunisia, lo 0,07 di quelli libici e lo 0,04% di quelli siriani sono utenti attivi di Twitter. Facebook ha una maggiore diffusione: gli utenti attivi sono, in percentuale rispetto alla popolazione, ad esempio il 7,32% in Libia, il 12,78% in Egitto, il 12,24% in Siria e il 28,16 in Tunisia. Fra il settembre 2011 e il marzo 2012, inoltre, c’è stato un aumento diversificato del numero di utenti attivi. Twitter in Tunisia è cresciuto del 18,03%, in Siria del 40,18%, in Egitto del 65,75%. A registrare il tasso di crescita maggiore è stata l’Arabia Saudita con il 208,34% mentre la Libia ha un saldo negativo con una diminuzione del 9,37%.
Sebbene solo una parte della popolazione ne facesse uso, come emerge dai dati appena riportati, gli studi effettuati sul ruolo dei social network nelle rivolte arabe, condotti sia analizzando i contenuti postati in rete attraverso analisi qualitative sia registrando lo svolgersi delle proteste, mostrano come i social network abbiano avuto un ruolo attivo. In “The New Social Media and the Arab Spring” il ruolo dei social media viene inserito in un ragionamento più ampio del ruolo che ha avuto internet negli ultimi vent’anni nel creare uno spazio alternativo ai mass media, controllati dai regimi, sia per coloro che cercavano spazi di libertà sia per i jihadisti. Lo spazio virtuale della rete ha inoltre contribuito a stemperare le discriminazioni sessuali e a fornire informazioni non reperibili altrimenti. Nelle rivolte l’analisi mostra come Facebook abbia avuto in Egitto un ruolo cruciale per far emergere il dissenso al regime e far aggregare persone che avevano subito soprusi. Twitter ha avuto invece il ruolo di “story-teller” sia per amplificare le storie che per documentare minuto dopo minuto le proteste per strada. Notevole ruolo ha avuto anche nel dare coraggio alle donne e consentire loro di appropriarsi di un ruolo nella rivoluzione. I blog, infine, hanno fornito spazi in cui argomentare il proprio dissenso in rete.
Lo studio “Opening Closed Regimes: What Was the Role of Social Media During the Arab Spring?” (disponibile qui in versione completa) dopo aver analizzato un’impressionante quantità di materiale pubblicato in rete (più di 3 milioni di tweets, gigabytes di video di YouTube e centinaia di post pubblicati su blog) giunge alla conclusione che i social media non hanno causato le rivolte, ma hanno contribuito a modellare il dibattito politico e a diffondere gli ideali democratici oltre i confini nazionali. L’analisi ha mostrato, inoltre, che picchi di conversazioni online hanno preceduto i maggiori eventi accaduti sul territorio. I social media, concludono gli studiosi, hanno quindi costruito un’“ecologia virtuale della società civile” diventando spazi in cui discutere di temi dei quali non era possibile parlare in pubblico e hanno avuto l’effetto di un collante che ha consentito agli attivisti di incontrarsi e dibattere.
Un interessante articolo di Thomas Sander, che contiene anche numerosi riferimenti bibliografici, prova a riassumere alcune “lezioni” dalla storia recente. In primo luogo il fatto che i social media possono a lungo termine avere l’effetto di rafforzare la coscienza nella società civile. Va inoltre considerato l’assetto istituzionale del Paese, ovvero la Tunisia è l’unico Paese in cui una rivolta alimentata anche con i social media da sola ha trasformato il regime. In altri casi va considerato l’insieme dei fattori intervenienti, per esempio se sussistono forme di repressione brutale del dissenso (come in Siria), oppure se non c’è l’intervento di nazioni esterne (come è accaduto in Libia), i social media possono avere un ruolo più ridotto di quello che ci si può aspettare. Va poi considerata, prosegue Sander, la penetrazione di internet nella popolazione e la modalità con cui un regime può controllare l’accesso ad internet e alle reti mobili. Altri fattori da tenere in conto sono poi la sofisticazione del controllo di internet, che può non attuarsi non solo attraverso un blocco totale, e l’attuazione di campagne di disinformazione con l’obiettivo di disorientare la popolazione. Il quinto punto è la valutazione delle conseguenze inattese e la relazione fra social media e vita quotidiana.
Si tratta quindi di un ruolo complesso che di volta in volta deve essere calato nel contesto i cui i social media vengono utilizzati. Come sottolinea Wael Abbas, blogger egiziano, in un’affermazione citata da Sander: “Social media is a tool. But revolution is the decision of many people”.