Helmut Newton dalla mostra MANNEQUIN – LE CORPS DE LA MODE
La settimana scorsa sono stata ad Arles, l’occasione era la settimana inaugurale de Les Rencontres d’Arles, festival di fotografia nato nel 1970 diventato ormai uno dei più prestigiosi al mondo.
Siamo partiti in macchina da Milano con Albertina e Alessandro lunedì pomeriggio, in tempo per la festa dell’agenzia Magnum all’Hotel Nord Pinus a Place du Forum – non sarà un’esperienza facilmente ripetibile – in pochi metri quadrati ovunque mi girassi c’era un mostro sacro della fotografia: Josef Koudelka, Elliott Erwitt, Alex Majoli, David Alan Harvey, Moises Saman, Christopher Anderson, Paolo Pellegrin, Antoine d’Agata e molti altri. Erano tutti al party perché nei giorni precedenti avevano fatto il loro meeting annuale proprio ad Arles.
È stata una settimana eccezionalmente ricca di stimoli, il mio consiglio è di vivere Arles proprio nella settimana inaugurale del Festival, perché a prescindere dalle mostre che restano e sono visitabili fino al 23 settembre l’energia che si respira nella cittadina francese durante il festival è magica, tutto parla di fotografia. Migliaia di amanti dell’ottava arte provenienti da tutto il mondo muniti di macchina fotografica e programma alla mano, c’è addirittura un ciabattino che vende scarpe Canon, ovunque proiezioni, conferenze, tutto di altissimo livello.
Bravissimi Hervé Schiavetti, sindaco di Arles, François Hebel, direttore di Les Recontres d’Arles, e Jean-Noël Jeanneney, presidente.
È proprio vero che il successo di questo genere di festival ha molto a che fare con la location, la dimensione di Arles, in cui tutte le distanze sono percorribili a piedi, oltre che il suo fascino, ne fanno il palcoscenico ideale per un evento di questo tipo.
Con Albertina d’Urso e Darcy Padilla alla festa di Magnum
Ad Arles ho conosciuto fra gli altri Darcy Padilla, l’autrice del meraviglioso Julie Project di cui avevo parlato qui nel mio blog, e Antoine d’Agata, che, a Les Rencontres presentava il suo nuovo libro Ice, un libro molto duro, che colpisce allo stomaco, dopo averne sfogliato le pagine sono rimasta in trance per più di un’ora. D’Agata è un Francis Bacon Baudlairiano della fotografia, le sue opere sono brandelli d’anima strappati con violenza, le sue immagini e la sua stessa vita sono il manifesto di una ricerca interiore, per d’Agata l’arte è fonte di introspezione, una vita vissuta sempre in contatto con la pulsione, ai limiti della sopravvivenza, come se fosse possibile sentire la vita solo vicino alla morte.
Il libro ice di Antoine d’Agata
Ho incontrato spesso Koudelka, che è ad Arles con una mostra sui suoi zingari, solitario e curioso tra le numerose mostre e dibattiti di Arles, sono follemente innamorata di Josef, della sua genuinità, della sua integrità intellettuale, della totale assenza di un qualsiasi anche minuscolo atteggiamento compiacente.
Josef è amico di François Hebel, direttore dei Rencontres, e ha quindi acconsentito a un’intervista pubblica con François al Théatre D’Arles. Il teatro era gremito e, alla fine dell’intervista, il microfono ha girato per il pubblico per qualche domanda. La prima è stata quella di una signora che gli ha chiesto la differenza fra ciò che considera bello e ciò che considera essenziale in relazione a un’affermazione fatta da Josef a François durante l’intervista precedente.
Josef ha risposto con un sorriso “no grazie non rispondo”: sì perché lui è così e, come ha detto François, non aspettatevi che Josef risponda esattamente alle vostre domande. Lo fa con tutti, compresa la sottoscritta: Koudelka risponde a suo modo, con una purezza disarmante.
Josef Koudelka e François Hebel
All’Église des Frères Prêcheurs ho rincontrato Amos Gitai che avevo conosciuto un anno fa a Venezia durante la Biennale di Architettura di cui curava il padiglione israeliano, Amos è ad Arles con un’installazione che si interroga sulla relazione fra le strutture architettoniche e le stratificazioni “archeologiche” della memoria.
A Les Ateliers fra le moltissime mostre mi ha colpito il lavoro di Pentti Sammallahti, finlandese, classe 1950, non lo conoscevo, le sue fotografie sono poesia pura, rigorosamente bianco e nero, spesso panoramici, Pentti è un uomo del nord, guardando le sue immagini si percepisce il freddo, si sente l’odore della neve, e si dilata lo scorrere del tempo.
Pentti Sammallahti
Pentti Sammallahti
Sempre a Les Ateliers vi segnalo l’israeliano Jonathan Torgovnik, che ha vinto con “INTENDED CONSEQUENCES” il Discovery Award di quest’anno. Si tratta di una serie di ritratti a donne brutalmente violentate durante il genocidio in Ruanda che posano insieme ai propri figli frutto di quella violenza. Per questo progetto Torgovnik ha svolto numerosi viaggi in Ruanda nell’arco di tre anni e il risultato sono queste immagini, che hanno una forza incredibile per taglio, composizione, prospettiva, colori, per poter fare un lavoro così autentico è evidente che il fotografo è riuscito a entrare davvero in empatia con la tragedia di queste donne che hanno capito di potersi fidare di lui.
Valerie With Her Son Robert ©Jonathan Torgovnik
Altri partecipanti al Discovery Award che mi sono piaciuti e vi segnalo sono l’americano Lucas Foglia, e le finlandesi Anni Leppala, Nelli Palomaki.
Lucas Foglia – A Natural Order – 2006
Anni Leppala – Light girl laying down – 2009
Nelli Palomaki – Baawo at 30 – 2011
Fra una mostra, una conferenza e un’intervista, ad Arles è d’obbligo transitare per la Place du Forum più volte al giorno e sedersi in uno dei tanti caffè che affollano la piccola piazza, lo facciamo noi giornalisti per incontrare i fotografi, questi ultimi per vedere noi e gli editori, i giovani aspiranti fotografi speranzosi di mostrare i propri progetti, i curiosi e le “groupies” dei fotoreporter, già perché la mia impressione è che alcuni di questi fotografi siano un po’ come delle rockstar e hanno la loro schiera di ammiratrici che li stalkano da un festival all’altro per diventare amiche/fidanzate/mogli/amanti dei loro idoli.
Nella settimana del festival si scatena la caccia al badge, lo portiamo tutti al collo, quando incontri una persona prima ancora di guardarla in faccia punti al badge per scoprire chi è, la prima cosa che si fa quando si arriva ad Arles è andare al press office a ritirare il badge in cui è stampato il proprio nome e professione e che permette di entrare gratis a tutte le mostre e gli eventi, comunque ho notato che verso il terzo giorno la gente aveva badge improbabili, donne con nomi di uomini e viceversa, chissà forse un mercato nero del badge.
Così mentre osservavo le diverse dinamiche professionali e non al caffè del Nord Pinus ho intervistato David Alan Harvey e Christopher Anderson, incontrato Paolo Pellegrin con moglie e bimba, e scherzato con l’instancabile Renata Ferri che sfoggiava un look très chic composto da camicia di lino blu e pantaloni bianchi.
David Alan Harvey al caffè dell’Hotel Nord Pinus
Perdonatemi la leggerezza, ma non posso esimermi dal notare che ci sono dei look che vanno per la maggiore anche ad Arles, c’è il tipo photo editor che è così diverso dal tipo fashion editor cui sono abituata nei nostri uffici di Vogue Italia, per intenderci il photo editor potrebbe essere Anne Hathaway ne “il Diavolo veste Prada” prima della trasformazione, mentre il fashion editor è sempre Anne ma dopo la trasformazione. C’è il look da fotografo di guerra: jeans, scarponcino e tshirt un po’ emaciata, e anche il look da groupie-di-fotografo-di-guerra che prevede abiti di lino o sete leggere e svolazzanti.
Tutte le sere poi ci si incontrava al Théâtre Antique d’Arles per le proiezioni, la prima sera non ero preparata e sono stata divorata dalle zanzare arlesiane molto più determinate e cattive di quelle milanesi, ma ne è comunque valsa la pena, nel teatro a cielo in scena c’erano i fotografi di Magnum e ognuno di loro ha commentato dal vivo la proiezione del suo primo lavoro, con una colonna sonora creata ad hoc e suonata dal vivo.
Alex Majoli, Lorenza Bravetta e Giorgio Psacharopoulos di Magnum e Christopher Anderson
Molte le storie raccontate, come quella racchiusa nelle foto di Paolo Pellegrin che ha presentato -più che il suo primo lavoro- il primo che gli ha permesso di entrare in contatto con il suo stile. Veramente toccante poi il tema del rapporto “d’intimità” che si crea con la fotografia e attraverso la fotografia, sintetizzato nelle storie di Jacob Aue Sobol e in quelle di Chistopher Anderson. Il primo, innamoratosi di Sabine, aveva smesso di scattare salvo poi, spinto dall’esigenza artistica, ricominciare proprio facendo ritratti del suo amore e trovando in lei la dimensione dell’intimità tra artista e soggetto. Anderson invece ha voluto raccontare il rapporto padre e figlio attraverso sé stesso: nel momento della nascita di suo figlio, suo padre ha iniziato a stare male.
Slide show del progetto “Sabine” foto di Jacob Aue Sobol
Slide Show del progetto “Son” di Chistopher Anderson
Da questa transizione fatta di gioia e dolore è nato il lavoro Son. E, tra le altre, anche la storia di David Alan Harvey che, appena ventenne, è andato a vivere con una famiglia afroamericana di Norfolk, in Virginia. Un’esperienza da cui è poi nato il libro Tell it like it is nel 1966. In conclusione di serata Alec Soth e Jim Goldberg hanno presentato il nuovo lavoro Magnum dal titolo Postcards From America.
Slide show dal libro Tell it like it is di David Alan Harvey
La seconda serata al Théâtre Antique d’Arles ha visto protagoniste le foto di Henri Cartier-Bresson. Un evento celebrativo in occasione del suo centenario e della realizzazione del documentario di Pierre Assoulin, Le Siècle De Cartier-Bresson, che racconta un intero secolo attraverso gli scatti, le foto e la voce del grande maestro dell’immagine.
Slide Show delle foto di Henri Cartier-Bresson
Un’altra serata di proiezioni è stata dedicata a Elliott Erwitt che, presente in sala, è stato accolto da una vera e propria standing ovation. “I’m quiet serious about not being serious” ha detto Erwitt che, negli ormai suoi ottantaquattro anni, ha commentato tutte le sue foto con incredibile lucidità e con altrettanto tagliente umorismo.
Slide Show di Elliott Erwitt
Indimenticabile la Nuit de L’Année, il venerdì 6 luglio in cui dalle 10 di sera alle 3 del mattino Arles si è trasformata in un cinema a cielo aperto: proiezioni di slideshows ovunque disseminate per la cittadina, anche all’interno dei cortili delle case private, un’esperienza suggestiva.
Per chi si fosse perso l’inaugurazione, consiglio comunque un week end ad Arles prima della fine del festival perché ci sono delle mostre molto interessanti, ecco a mio parere cosa non perdere:
JOSEF KOUDELKA: Église Sainte-Anne fino al 2 settembre
PENTTI SAMMALLAHTI: Les Ateliers padiglione 5 fino al 23 settembre
LUCAS FOGLIA, JONATHAN TORGOVNIK, ANNI LEPPALA, NELLI PALOMÄKI: Les Ateliers padiglione 3 fino al 23 settembre
AMOS GITAI : Église des Frères Prêcheurs fino al 26 agosto
MANNEQUIN – LE CORPS DE LA MODE : Espace Van Gogh fino al 23 settembre
SOPHIE CALLE Chapelle Saint-Martin du Méjan fino al 2 settembre :
MASSIMO BERRUTI DENIS DARZACQ GÉRALDINE DAVIDE MONTELEONE : LE MÉJAN fino al 2 settembre