“Era un mondo, questo della fabbrica della sedia, incantato. Lo chiamavano e continuano a chiamarlo, il Triangolo della sedia, come fosse il luogo di un culto misterico, dove si adorava una divinità sterminatrice. Era il Friuli orientale, quasi a ricordare un mondo di spezie e concubine, di fottimenti e sciabole e magie. E sabbia, che qui prendeva la consistenza della segatura.
[…] C’erano i padroni e c’erano gli schiavi, tre generazioni hanno riempito i cimiteri del triangolo magico, tre generazioni di nuove creature acquatiche, con le pinne al posto delle mani a causa delle frese maciullatrici, tre generazioni buttate nel cemento delle fortezze dei padroni che oggi piangono la crisi economica mondiale, davanti alle telecamere, mentre le fortezze crescono, si arricchiscono di nuovi padiglioni, si aggiungono pezzi di collezionismo automobilistico d’epoca nel garage grandi come capannoni, dei padroni che piangono miseria e chiudono le fabbriche nel triangolo per andare a costruire pentagoni, esagoni, ottagoni magici in Romania, in Slovenia.
[…] C’è tutta la vita di mio padre nella malta che lega i mattoni delle ville dei padroni. Ci sono le sue dita maciullate, i suoi polmoni intasati di finissima polvere di legno, in quella malta, c’è tutto l’amore di cui era capace, tutta la sua impossibilità a essere felice.” -Emanuele Tonon, Il Nemico, ed. ISBN–
Ogni tanto la retorica dei lavori che i giovani non vogliono più fare torna a far capolino tra i giornali. Dopo la clamorosa bufala diffusa dal Corriere della sera dell’estate scorsa che dichiarava la disperata ricerca di panettieri in Abruzzo, notizia che fu poi smentita dagli uffici della stessa categoria, sommersi di curriculum e domande, quest’anno si ripropongono numeri ed elenchi che fanno, a chi è abituato a cercare lavoro, sorridere.
Chi cerca lavoro sa bene come funzionano i mondi della ristorazione, del turismo, delle offerte disponibili e magari conosce tante storie che potrebbero rispondere come si deve a chi dice: “oggi nessuno vuol più fare l’idraulico o il meccanico”.
Ma i giornali si sa, d’estate han poco da scrivere e così via a dire che i giovani oggi non vogliono più sporcarsi le mani, che pensano solo a laurearsi, che in Nord Europa le cose vanno diversamente.
Poco importa se:
“La percentuale di laureati nel nostro paese nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni è pari al 20%. La media dei paesi OECD è del 35%. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è del 34%. Negli Usa del 42%, in Giappone del 45%, in Corea del Sud è del 58%. Tutti i grandi paesi europei hanno una media più alta.” (Fonte: Scienza in Rete)
Poco importa se poi durante gli studi molti ragazzi si mantengono proprio facendo i camerieri, i commessi, i baristi e se solo una minima fetta di quel 36% di giovani disoccupati ha una laurea (vista la fascia considerata, qualcuno non ha neppure un diploma).
Ci sono temi che diventano benzina sul fuoco quando si parla di sparar sentenze: ma ci fanno sul serio bene?
Quando mi sono capitati sotto mano un po’ di articoli sulla scarsa voglia di fare lavori manuali dei giovani italiani non ho potuto fare a meno di pensare alla mia regione, al Friuli Venezia Giulia, al fatto che da ragazzini si finiva in fabbrica presto, negli anni ’90.
Finivi a fare la stagione al mare, se ti capitavano genitori di ampie vedute, che ti mandavano alle superiori e temevano le dita maciullate dalle frese di cui parla Tonon. La maggior parte in fabbrica ci finiva e basta, passata la terza media.
Qualche amico ha avuto ustioni che gli hanno rovinato la maggior parte del corpo. Qualcuno ha perso qualche pezzo di dita. Qualcuno a 25 anni aveva già un ernia. Così andavano le cose fino a 15 anni fa.
Vorrei avere tra le mani “Hai mai fatto parte della nostra gioventù?” di Massimiliano Santarossa (Dalai editore), così tanto per citare come si deve qualche frammento non del tutto inventato della vita da giovani lavoratori manuali friulani a cavallo tra gli anni ’90 e il 2000. Siccome al momento mi manca, beh, provate a cercarlo. Provate a capire.
(Mi manca, perché il Friuli del bum industriale, quello raccontato da Tonon e Santarossa, non esiste più e la mia libreria sta a Pordenone mentre le mie gambe sono finite a Roma.)
Avendo visto il mondo del lavoro degli ultimi vent’anni come si fa a consigliare a un ragazzo “Non studiare che non serve a niente, prendi il lavoro qualsiasi che c’è in giro?”
Volendo prendere sul serio le analisi degli “esperti” che ci dicono che i giovani non vogliono più svolgere certe mansioni, ecco mi domando se forse non c’è un perché, inconscio, esperenziale, che andrebbe quanto meno preso in considerazione. Mi chiedo se per caso non hanno capito qualcosa dai loro fratelli maggiori, dai loro padri, qualcosa che sfugge alle statistiche.
E tralasciamo per un attimo il fatto che spesso coloro che piangono il morto rispetto ai dipendenti che non trovano non sono disposti a contrattare nulla (formazione, stipendi, ore lavorate) rispetto all’ideale di lavoratore che hanno in testa.
Davvero sono da condannare i genitori che, potendo, cercano di mantenerli, questi figli del XXI secolo? Se foste state ragazzine a nord est, mandate a “grattare legna” per i mobilifici, a contatto quotidiano con gli acidi, con la gola e il naso che brucia, lavorando in nero, ecco, davvero vorreste lo stesso per i vostri figli?
“In nessuna regione, come in Lombardia e a Milano, le imprese fanno tanto per la cultura dei loro impiegati e operai. Nessuna impresa importante manca del Cral, centro culturale a favore dei dipendenti. Il più grandioso è quello della Pirelli. Si dedica alla musica, alle arti figurative, alle lettere, al teatro e al cinema; è lodevole sopratutto perché aborre il dilettantismo.”
Questo è quello che trovò Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” andando a Milano, ma che vide anche negli esempi di industrie venete in via di sviluppo mentre attraversa il Paese tra il 1953 e il 1956.
Da allora ben altra strada è stata intrapresa dagli imprenditori italiani che, anche là dove si sono dovuti inventare, e penso alle numerose software house del Paese, hanno preferito prendere esempio dai modelli anni ’90 più che anni ’60.
Oggi si cercano programmatori neodiplomati capaci di scrivere in Java, Perl, HTML5, C++, Visual Basic con conoscenze di Oracle e SAP (meglio ancora se conoscono già il codice che deve essere scritto di qui alla settimana prossima e visto che trattasi di un gestionale è bene essere preparati su partita doppia e chiusura di bilanci. Offresi un contratto in apprendistato.). E magari si dà colpa alla scuola che non sforna ragazzi preparati e si va in giro a dire “ho dovuto dare il lavoro agli indiani”.
Mi chiedo, confrontando le testimonianze di Piovene con quelle di Santarossa e Tonon, pensando alle cose che ho visto e vissuto, se davvero siano tutti casi di pigrizia quelli dei ragazzi che faticano a trovare lavoro.
O non conti almeno un po’ il fatto che se qualche annuncio continua a rimanere nelle bacheche delle offerte (ammesso sia vero) sia perché inconsciamente abbiano visto abbastanza, che la domanda non incontri l’offerta perché ci sono umanità con addosso obiettivi differenti, da una parte chi pensa prima al profitto e per troppi anni ha potuto dimenticare il lavoro, dall’altra chi non vuole rinunciare a 20 anni alla propria umanità, alla ricerca di felicità, non avendo mai potuto vedere del lavoro altro che l’aspetto suo più corrosivo e dannoso.
Forse solo ci spero e intanto mi chiedo quale cultura malata si sia sviluppata in Italia, tale da elogiare chi a 25 anni va a lavorare con la febbre con il terrore di perdere un contratto a progetto da 650 euro al mese (ignorando magari alcuni elementi basilari di diritto del lavoro, di sicurezza, di rispetto della salute dei colleghi, cose che nelle aziende sempre meno sindacalizzate e nelle nuove aziende innovative, è purtroppo, la norma) e denigrare chi con sacrificio, nella speranza di non trovarsi tra 20 anni nell’incapacità di decifrare un contratto di lavoro, prende una laurea e poi prova a fare quello che ama, o qualcos’altro nel frattempo.
Sarò utopista ma penso che sia così che si trasforma un Paese: non lasciando che chi lo vuole ignorante e depresso diventi la maggioranza fino ad aver ragione.
P.S.: Informo inoltre qualche giornalista che pare ignorarlo che per diventare infermieri in Italia occorre una laurea, a numero chiusissimo, desiderata da molti, accessibile a pochi. E anche per diventare OSS (operatore socio-sanitario) occorre un titolo conseguibile dopo appositi corsi che vengono però erogati col contagocce. Si preferisce alimentare il flusso di lavoratori stranieri in questo campo. Come in altri. E non credo abbiano colpa i ragazzi di 20 anni.