Ho l’impressione che l’euforia mediatico-finanziaria che si è scatenata dopo il buon esito dei summit europei sia un tantino fuori misura. Non v’è dubbio che Monti abbia riportato un notevole successo sulla scacchiera della politica dell’Eurozona, riuscendo ad addolcire, e non di poco, la linea rigorista della Merkel. E ancor meno dubbi vi sono sul fatto che, se vi fosse stata una rottura politica fra Nord e Sud d’Europa, in queste ore saremmo alle prese con le onde incontenibili di uno tsunami finanziario. Nessun risparmio sarebbe più al sicuro, nessun governo sarebbe al riparo dall’ira popolare. E tuttavia l’aver (per ora) evitato la catastrofe non dovrebbe farci perdere di vista che, a dispetto del successo politico di venerdì, tutti i nodi fondamentali dell’Unione monetaria restano – purtroppo – largamente irrisolti.
Sono passati ormai cinque anni dall’inizio della crisi (agosto 2007), ma nulla di risolutivo è stato finora fatto né per ridurre i debiti pubblici, né per far ripartire la crescita, né per mettere il sistema al riparo dal ripetersi di crisi come quella che abbiamo vissuto in questi anni. Finora abbiamo solo comprato tempo, pagandolo ogni volta a un prezzo più caro. Per questo penso che il vero test non sia stato il Consiglio Europeo (quello è “solo” servito ad evitare il disastro), ma risieda piuttosto in ciò che i governi – specie quelli di Italia e Spagna – faranno o non faranno nelle prossime settimane. E questo fare o non fare dipenderà molto, a mio parere, non solo dalle risorse di coraggio di ogni premier, ma anche dalla sua teoria, dalle sue idee sul funzionamento dell’economia, dalla sua visione della meccanica della crisi.
La teoria del nostro premier è preoccupante. Per quel che si capisce dalle sue dichiarazioni, Mario Monti ritiene che l’andamento dello spread, che da metà marzo è stato via via più sfavorevole all’Italia, sia un cattivo indicatore dello stato di salute della nostra economia. Secondo questa teoria i segnali che i mercati emettono quando, per prestarci denaro, pretendono il 6% di interessi, sarebbero gravemente distorti, nel senso di una sopravvalutazione del rischio-Italia.
In estrema sintesi il ragionamento, e il sentimento, dei nostri governanti sembrerebbe essere il seguente. Ma come è possibile? Abbiamo fatto una manovra correttiva imponente, grazie ad essa saremo in grado di anticipare il pareggio di bilancio al 2013, il nostro deficit pubblico è tra i migliori dell’eurozona, stiamo facendo i “compiti a casa” (riforme) che l’Europa ci chiede e, a dispetto di tutto ciò, i mercati osano non fidarsi di noi? Come è possibile una simile anomalia?
Di qui l’idea di correggere i mercati. In che modo? Con la politica, naturalmente: se anche in futuro i mercati dovessero ostinarsi a pretendere (da noi a dalla Spagna) tassi di interesse troppo alti, il fondo salva-Stati dovrebbe intervenire per “sostenere” i titoli di Stato che i mercati giudicano a rischio. Tradotto brutalmente: la politica europea, attraverso vari Fondi, istituzioni e meccanismi decisionali, provvederà a comprare titoli pubblici a un prezzo che il mercato non ritiene conveniente.
Ho definito “preoccupante” questa teoria per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché non sembra supportata da un’evidenza empirica forte. Più che sbagliare i propri calcoli, è possibile che i mercati diano importanza a cose diverse da quelle che stanno a cuore ai tecnocrati europei. Questi ultimi sono ossessionati dal debito pubblico, dal deficit, e dai rituali degli impegni scritti: memorandum, raccomandazioni, lettere di intenti, piani di risanamento. I mercati appaiono più attenti ad altre cose: non solo l’ammontare del debito pubblico (specie se detenuto da investitori esteri), ma le prospettive di crescita e la velocità delle riforme. Quando un governo annuncia riforme che poi non fa (o rimanda, o semplicemente annacqua), quando impone tasse che migliorano i conti pubblici ma al prezzo di provocare una recessione, i mercati possono non apprezzare. È precisamente questo che potrebbe essere successo negli ultimi tre mesi, quando i mercati hanno cominciato a fidarsi sempre meno della capacità dell’Italia di ripagare i suoi debiti, una capacità che dipende molto di più dalle prospettive di crescita del Paese che da qualche decimale in più o in meno nei suoi conti pubblici.
Ed ecco dunque il secondo motivo di preoccupazione. Come cittadino, sarei molto più tranquillo con un governo che prende sul serio i segnali dei mercati, che con un governo che pensa che la speculazione stia distorcendo prezzi e rendimenti dei titoli di stato. Perché un governo che adotta la prima teoria (i mercati sono un termometro del mio stato di salute) tenderà a curare il male che i mercati segnalano, e sarà tanto più determinato quanto più la temperatura sale. Mentre un governo che adotta la seconda (i mercati sbagliano, perché drammatizzano la mia malattia) cercherà innanzitutto di riparare il termometro, e sarà meno consapevole della necessità di intervenire subito sulle radici del male.
Si dice che Mario Monti e i suoi ministri, in caso di fallimento del Consiglio Europeo, fossero pronti a riunirsi domenica notte per annunciare, lunedì mattina, una spending review incisiva e un pacchetto di misure per accelerare le riforme strutturali. Ora sappiamo che quella riunione d’emergenza per fortuna non è stata necessaria e che, verosimilmente, i ministri avranno passato la notte scorsa a guardare la finale Italia-Spagna del campionato Europeo di calcio. Ne siamo felici per loro e anche per noi stessi, perché tutti quanti abbiamo evitato una catastrofe. Ma ne saremmo ancora più felici se, dopo la partita, e senza l’affanno di una situazione di emergenza da fronteggiare, sentissimo annunciare – da un governo che in questi giorni ha guadagnato ulteriore autorevolezza – misure altrettanto incisive di quelle che avrebbe adottato se le cose fossero andate storte. Perché il vero rischio, oggi, è che i mercati riprendano il sopravvento non perché i fondi salva-Stati e la banca Centrale Europea non riescono a fare il loro lavoro, ma perché i governi dei Paesi mediterranei cedono alla tentazione si adagiarsi, cullandosi nelle illusioni dello scampato pericolo.
(articolo pubblicato su Linkiesta il 2 luglio)