Con l’avvento dell’Euro, è cosa nota, l’Italia non ha più potuto sfruttare l’arma della svalutazione per guadagnare competitività sui mercati esteri. Contropartita di questa rinuncia è stata la forte discesa dei tassi di interesse che ha permesso una drastica riduzione del costo per il servizio del debito sovrano. L’Italia purtroppo non ha sfruttato la maggior capacità di spesa dovuta ai ridotti oneri finanziari per investimenti volti ad ammodernare il Paese e renderlo competitivo con i “campioni europei”. Il risultato è stata una progressiva concentrazione delle attività produttive nei paesi più efficienti e una lenta ma inesorabile perdita di competitività del sistema Italia, a vantaggio soprattutto della Germania che ha trovato nelle esportazioni il motore di una nuova e prolungata fase di crescita economica. ( A proposito un interessante studio di CER – Centro Europa Ricerche Unicredit: https://www.unicredit.it/content/dam/unicredit/chisiamo/Superindice/IMPRESE/APPROFONDIMENTI_SEZIONE_IMPRESE_RapCER3-2011.pdf).
L’attuale pessima gestione della crisi dell’Euro che si trascina ormai da più di due anni rischia di dare il colpo di grazia al nostro sistema industriale. Alle note storture del Sistema Italia (fiscalità eccessiva, carenza di infrastrutture, elevato costo dell’energia, sistema giudiziario inefficiente, una burocrazia asfissiante e corrotta) si aggiunge ora la grande difficoltà di accesso al credito (soprattutto per le PMI, vera ossatura e orgoglio del nostro sistema industriale) e un costo del denaro a livelli insostenibili. E’ vero che il “made in Italy”, la nicchia del “lusso” e le realtà che si rivolgono prevalentemente ai mercati esteri e ai “nuovi ricchi” continuano a crescere e a suscitare l’ammirazione e l’invidia di molti. Ma questo è palesemente insufficiente a garantire più occupazione e più equità, anche a livello intra-generazionale. Preoccupa per esempio la notizia che molte piccole realtà del nord-est, per non essere costrette a chiudere i battenti, abbiano deciso di delocalizzare i loro stabilimenti nei Balcani o nell’Est Europa. E preoccupano i numerosissimi esempi di imprese sane che faticano ad avere un finanziamento per innovare ed aggredire i mercati a causa di un sistema bancario incapace di comprendere i progetti e le esigenze degli imprenditoria e troppo concentrato a leccarsi le ferite di quel capitalismo relazionale che tanto male ha fatto e continua a fare al nostro paese.
Consoliamoci pensando che il crollo dell’Euro sarebbe un duro colpo anche per la Germania, forse ancora più che per l’Italia. Di fronte all’impossibilità (o non volontà) di trovare una soluzione all’attuale crisi, tanto vale allora, prima che sia tropo tardi, chiamare il “bluff” tedesco. Se il pareggio di bilancio, il “fiscal compact”, la riforma del lavoro e delle pensioni, la “spending review” e la conseguente compressione dei redditi e dell’occupazione non sono ritenuti sufficienti per ottenere il “visto” tedesco al passaporto Europeo, pazienza. Basta che si dica chiaramente. I tassi di interesse che le imprese italiane (così come lo Stato) sono oggi costrette a pagare scontano già pesantemente il rischio di una possibile uscita dell’Italia dall’Euro. Tanto vale allora riconsiderare l’utilizzo della leva della svalutazione per rilanciare la crescita. Oggi il governo spagnolo sotto intensa pressione sui mercati finanziari non ha smentito che alcuni a Madrid ci stanno pensando. La situazione Italiana non è diversa: con uno spread paragonabile a quello degli ultimi giorni di Berlusconi l’opzione ad alcuni – e non in chiave populista – potrebbe risultare sempre più interessante.