Una tranquilla mattinata di paura sola con i bambini in città. Quando ti svegli arrovellandoti il cervello per pensare a dove portarli, a come intrattenerli per cinque-sei ore in una città che ai bambini non offre nulla, e nella quale, per giunta, sei a piedi. Li attiri con la lusinga di una graffa al bar (la graffa, per chi abita a Nord del Tevere, è una ciambella dolce fritta o al forno ricoperta di zucchero che a Napoli va forte sotto Carnevale). Ti siedi con loro sulla panchina all’ombra e ti mangi una cosa dolce anche tu. Scherzi e giochi mentre il più grande già si lamenta che è stanco, anche se siete usciti di casa da soltanto mezz’ora. Hai già detto “no” ad almeno cinque richieste di acquisti di giochi tra giornalaio e negozio di giocattoli perchésennòprendonoviziecapricci e loro sono sempre più irritati, anche perché ieri a quest’ora erano al mare. Tornando a casa passi davanti ad un negozio di cianfrusaglie che, in vetrina, ha esposti orologini per bambini di ogni forma e colore. È allora che il più piccolo fa breccia sul tuo animo di mamma: “mamma, la settimana scorsa mi hai promesso che mi avresti comprato l’orologio!”, fa. Il cuore ha un sussulto. Non si è mai vista una mamma che non mantenga le promesse. Il piccolo c’ha ragione da vendere, perciò guardiamo la vetrina. Sono affascinati dagli orologi con il cinturino di gomma tipo vecchi Swatch. Il piccolo lo sceglie arancione, il grande rosso. Entriamo a comprare gli orologi. Si vede subito che il rosso ha qualcosa che non va. Lo sento, come una stilettata in pieno petto. Lo avverto con il sesto senso dei pacchi da mattinata di luglio senza scuola, eppure mi fido del negoziante quando gli dico che la lancetta piccola non si muove e lui dice che non ha aperto la sicura (mai sentito di un orologio che abbia la sicura) e traffica vicino alla rotellina che cambia l’orario restituendomelo che gira. Vabbè, mi sarò impressionata. Non sarà il solito imbroglio napoletano, forse.
Torniamo a casa e scopro quasi subito che avevo ragione. L’orologio rosso toccato al più grande perde minuti ogni tanto, per cui è destinato a viaggiare in ritardo. Solo che lo accumula, il ritardo, e sembra che si fermi per quanto viaggia piano. Vero è che mio figlio non è in grado di leggere l’ora, ma la rabbia verso il negoziante monta e io con lei, perciò mi ripropongo di tornare al negozio all’apertura pomeridiana. Intanto mi carico da sola.
Scoccano le 16,45 e dico a mio figlio: “andiamo a litigare con il negoziante”. Diseducativo, lo so, ma sono certa che mi farà storie, certa certissima che si impunterà anche di fronte al faccino del bambino, sicura che l’abbia fatto apposta e che non accetterà di cambiarmelo. Così, metto in tasca lo scontrino, che chissà come non ho gettato via appena tornata a casa, e mi dirigo incattivita verso la meta. Mio figlio mi segue circospetto e ubbidiente. Fiuta l’odore del sangue. Gli piace. Mannaggia a me.
Arriviamo ed entro come un kamikaze. “Scusi, stamattina ho comprato due orologi, ma questo non funziona, si ferma” e gli porgo l’orologio rosso da 5 euro guardandolo dritto negli occhi. Sento in sottofondo la musica di “Mezzogiorno di fuoco”. Ho la mano sulla fondina. Lui non batte ciglio “va bene, adesso cambiamo la pila”, risponde. Cazzo, mi ha fatta. Già mi immagino mentre torno a casa e scopro che non era la pila il problema ma un marchingegno guasto all’interno degli ingranaggi dell’aggeggio. Mi vedo domattina nera come la pece tornare di nuovo al negozio, i capricci di mio figlio di fronte ad un pacco non riparato. Fremo. Sudo. Sto male. Tutto questo in pochissimi secondi. Poi, il negoziante, fa: “però, signora, perché non ne sceglie un altro?”. Lo guardo stupita, come se mi avesse strappato i vestiti di dosso e gettati in mezzo alla strada lasciandomi completamente nuda di fronte a lui. Mi ha fatta di nuovo.
Mio figlio si illumina, dice che ha visto quello azzurro Napoli. Io sorrido come una deficiente e faccio spallucce mentre lo accompagno a sceglierlo dalla vetrina. Il negoziante lo prende, regola l’orario, glie lo mette al polso e gli carezza i capelli. lo ringrazio e saluto mentre usciamo dal negozio. Ho la coda impigliata tra le gambe.
Appena fuori, con ancora il commerciante alle spalle, mio figlio mi guarda e dice: “mamma, perché non ci hai litigato con il negoziante?”. Ecco come sentirsi un’idiota di fronte ad un bambino di quasi sei anni. Sorrido mentre penso che non c’è proprio niente da sorridere: ho fatto una grandissima figura di niente. Raccolgo tutto ciò che resta della mia dignità e gli rispondo: “sai, tesoro, anche le mamme a volte sono completamente sceme”.
Ecco, se non fossi stata così pronta nel ridere e far ridere lui e nel mostrarmi assolutamente umana, avrei perso la sua stima per sempre. Peccato di mamma. Rendiamo grazie al commerciante.