ÈvvivaQuanta verità, a volte, nei cliché.

Sabato 30 giugno. Dopo non so quanti mesi, mio marito ed io ci concediamo  poco più di 24 ore da soli, senza bambini, lontano da casa. Per il suo compleanno, il mio consorte ha avuto regalato un pa...

Sabato 30 giugno. Dopo non so quanti mesi, mio marito ed io ci concediamo poco più di 24 ore da soli, senza bambini, lontano da casa. Per il suo compleanno, il mio consorte ha avuto regalato un pacchetto Smart Box, di quelli che comprendono una notte in albergo a mezza pensione, bibite e dolci esclusi. Per sfruttare al massimo il tempo di permanenza scegliamo un posto più o meno vicino: Monte Porzio Catone, in un bell’albergo con piscina, immerso nei castelli romani.
Arriviamo in albergo che sono le 12, nel picco del calore (il termometro dell’auto segna 42° esterni), ma la receptionist Chiara ci comunica che il check in avviene dalle 14 in poi. Ce lo comunica con un certo sadismo, aggiustandosi il toupé e, noto, dopo aver controllato sui nostri documenti la provenienza geografica. Diavolo, siamo in provincia di Roma, mica a Pordenone! Allontano il pensiero, magari non è perché siamo di Napoli, magari ha qualche problema tutto suo. Siamo rilassati e ben disposti, perciò non ci perdiamo d’animo: andiamo a pranzo in una cantina tipica, prendiamo possesso della stanza, riposiamo come bambini e poi ci godiamo la piscina fino a sera.
Il giorno dopo idem. Il check out avviene alle 10, poco male, siamo talmente ben disposti che lasciamo i bagagli al deposito bagagli e torniamo in piscina, pronti a goderci la serenità del mattino. Arriviamo che siamo soli. Facciamo pace col mondo. La piscina, minuscola, è tutta per noi, completamente. Ci appisoliamo nonostante il caldo intenso, restiamo stesi all’ombra, un tuffetto ogni tanto nell’acqua splendidamente azzurra, poi di nuovo riposo, occhi chiusi e silenzio, silenzio, silenzio. Silenzio. Fino a quando..
Arrivano alla spicciolata. Prima una donna con due bambine, poi alte due donne, con quattro figlie al seguito, poi un uomo, il marito di una delle donne, poi un’altra donna, con una bambina piccola. Sono tutte femmine, santiddio, tranne tre mariti e un adolescente maschio. Sono tutti una grande, immensa e rumorosissima famiglia. E sono tutti napoletani.
Chiassosi, iniziano a fare tuffi nonostante un cartello, all’ingresso della piscina, reciti a caratteri cubitali “VIETATO TUFFARSI”. Seminano roba ovunque, camminano urlando, invadono letteralmente tutto lo spiazzo attorno alla piscina. Mio marito ed io, per quanto siamo immobili e silenziosi, imbozzolati nel nostro fagottino di libri e giornali, potremmo sembrare austroungarici. Per non far capire loro che siamo conterranei parliamo tra noi a bassa voce, ci comprendiamo con lo sguardo, restiamo in disparte, smadonnando in silenzio. Mi preparo ad assistere alla scena che so che, prima o poi, arriverà.
Parlano del fatto che hanno dovuto lasciare la stanza e che adesso non sanno dove lavarsi dopo il bagno in piscina. Le mamme cercano di impedire alle figlie di bagnare le lunghe chiome, ma con 45 gradi all’ombra le bambine ovviamente non riconoscono l’autorità materna. E i padri le lasciano libere di surclassare le madri. Così, in poco più di cinque minuti, tutti quei capelli fluenti sono fradici di acqua, per di più, zeppi di cloro, come i loro corpi. Iniziano a confabulare tra loro. Lo so, lo so che arriveranno a quello, lo so. Dico a mio marito “lo faranno”. Lui, che ha già capito, mi risponde “no, non è possibile”. Ed io “vedrai che lo faranno”. È una scena già vista milioni di volte, mi ci giocherei la mano destra e quella sinistra assieme, senza rischiarne la perdita e l’assenza di scrittura per una vita. E infatti, passano pochi minuti e una delle donne dice alla sorella “sta nella borsa, vedi, lo shampoo e ci sta pure il bagnoschiuma”. Ecco, lo sapevo.
Mi giro verso mio marito e gli dico, da sotto agli occhiali da sole: “visto?”.
Non sono felice di aver vinto. Per niente. Li osservo facendo finta di leggere mentre camminano sul bordo piscina insapondandosi le pance pelose e i lunghi capelli. Fanno a turno per sciacquarsi sotto la doccia. Chiassosi e festanti perché sanno di farla in barba al regolamento, che a volte sembra essere il principale sport di alcuni napoletani in vacanza. Li guardo sott’occhi, con sguardo sostenuto nascosto dal libro.
Spesso, quando sei in presenza di altri napoletani, l’unica è camuffarti e fare lo straniero. Solo che quello è il tuo modo di essere, non è finzione. E loro se ne accorgono. E un po’ si sentono a disagio, a volte. Ma cazzo, lo shampoo e il bagnoschiuma nella doccia di una piscina di un albergo non si possono sostenere.
È il cliché di quelli che Napoli la violentano. E che fa pensare, ai generalizzatori, che i napoletani siano quella roba lì. I napoletani non sono tutti quella roba lì, invece.
Lo shampoo e la doccia, mio marito ed io, ce li facciamo a casa, dopo due ore di macchina sotto il sole caliente. In piscina mi sciacquo solo, per lavare via il cloro da dosso. A sera, fresca di doccia, ripenso alla receptionist Chiara. Non aveva le sue cose, era solo reduce da due giorni di cliché. Che a volte si dimostrano orribilmente veri, purtroppo.

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