Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha invitato il suo omologo egiziano, Mohammad Morsi, al vertice dei Paesi non allineati, che si terrà alla fine di agosto a Teheran. È la prima volta che il leader iraniano si rivolge direttamente al neo eletto presidente egiziano, il quale ha replicato con una telefonata ad Ahmadinejad. Non si conoscono i contenuti di questa, ma l’episodio potrebbe segnare una svolta importante nelle relazioni tra due delle massime potenze del Medioriente. Ai tempi di Hosni Mubarak, appena un anno e mezzo fa, le distanze diplomatiche fra Il Cairo e Teheran erano abissali. La prima era l’alleato più affidabile dell’Occidente nella regione. Il solo, insieme alla Giordania, che aveva siglato una pace duratura con Israele. Entrambi gli elementi bastavano perché il governo iraniano considerasse l’Egitto il primo, tra i Paesi a maggioranza musulmana, dei nemici da contrastare. O se non il primo, il secondo. Visto che Teheran non nutre stima nemmeno dell’Arabia saudita. Per oltre trent’anni, le relazioni Egitto-Iran sono state interrotte. E nei pochi momenti più attuali di confronti, si è percepito un costante livore reciproco. Gli Ayatollah, non solo Ahmadinejad, non potevano tollerare Mobarak e il suo regime. Come pure viceversa.
Il caso di attrito più recente risale all’estate 2008. Nelle sale cinematografiche iraniane, viene proiettata un film-documentario dal titolo “L’assassinio del faraone”, in riferimento all’attentato nel quale rimase ucciso l’allora presidente egiziano Anwar Sadat. Era il 1981. L’omicidio portò Mubarak al potere. Un’ora di pellicola, prodotta dal Comitato per onorare i martiri dell’insurrezione islamica, in cui l’attentatore di Sadat, Khaled al-Islambuli, è celebrato come un eroe che uccide il traditore della causa islamica. A morire è il Sadat firmatario degli accordi di Camp David con Israele, nel 1978. Quelli che per l’Egitto chiudono il capitolo di guerra con il nemico sionista. Ma è anche il Sadat che, nel 1979, accoglie lo scià di Persia, Reza Pahlevi II in fuga dalla rivoluzione degli Ayatollah. Un anno dopo l’ex sovrano sarebbe morto proprio al Cairo e lì vi avrebbe trovato sepoltura. “L’assassinio del faraone” ricostruisce un fatto di cronaca contemporanea che, tre anni fa, ha fatto da leva per attualizzare il confronto millenario tra i due popoli che vantano due tra le storie più antiche di tutta l’umanità: quella egizia e quella persiana. A questo si aggiunge l’altrettanto antica inimicizia che scuote da sempre l’Islam tra sunniti – praticamente la maggioranza assoluta in Egitto – e gli sciiti, i quali vedono nel sempre più forte Iran una rivalsa per tutte le sofferenze patite da secoli.
Al passato, alle tradizioni e alla cultura, si aggiunge poi una politica estera che ciascuno dei due Paesi ha orientato in modo diametralmente opposto rispetto all’altro. Perché le crescenti ambizioni espansionistiche iraniane appaiono finalizzate a sparigliare i già precari equilibri del Medio Oriente e, contestualmente, a contrastare la forza più che affermata del governo del Cairo. Quest’ultimo, infatti, sebbene stia attraversando una fase di impasse – dovuta anche alla crescita dell’Arabia Saudita, suo altro competitor – vanta un indiscusso ruolo da primadonna sul palcoscenico internazionale. Obiettivo che sta cercando di raggiungere Teheran, con tutti i mezzi possibili. Quello di Mubarak, poi, è un regime laico, capace di contenere l’ingerenza dell’establishment religioso nazionale. A Teheran, al contrario, a governare è una ristretta casta ecclesiastica, che cerca di imporre al Paese uno stile di vita strettamente osservante e ultra-conservatore.
Ma tutto questo ora è finito. Sono bastati infatti un invito e una telefonata per lasciarsi alle spalle decenni di frizioni e millenni di differenziazioni storiche. Almeno così sembra. Il tutto in nome della realpolitik mediorientale. Le due grandi nazioni della regione, coloro che vedono negli altri popoli solo «un branco di beduini con bandiere» – lo diceva l’ex presidente egiziano Nasser prendendo a prestito la frase da un diplomatico iraniano – stanno tornando a dialogare. È un segno della rivoluzione araba, la quale, nella sua incertezza e nel grosso delle inquietudini che finora ha partorito, riesce a dimostrarsi come una forza di cambiamento.
Pubblicato su liberal del 6 luglio 2012