Ho letto il manifesto proposto da alcuni sulla Generazione Perduta. E no, non ce la faccio a condividerlo.
Ho 33 anni, un contratto a tempo determinato, come altri ne ho avuti, una laurea che ancora qualcuno chiama seria. Penso di rientrare quindi appieno in quel range che quel manifesto vorrebbe interpretare.
Ma no, non l’accetto.
Non accetto che la mia generazione assuma in senso generale la frustrazione che riguarda una piccola parte di essa.
Non accetto che posizioni politiche vengano fatte passare per neutre e vendute come principi.
Non ce la faccio.
In questi anni ho rischiato di finire sulla barca del conflitto generazionale più di qualche volta. Ma ho avuto per fortuna a fianco a me persone vecchie abbastanza per mettermi all’erta:
“C’è sempre il conflitto generazionale, però un conto è se è quella cosa che libera l’Italia dal fascismo, battaglia per i diritti civili, prova a sopravvivere al terrorismo, un conto è quella cosa che serve soltanto a dimenticare che esistono i poveri e i ricchi, di ogni età”.
E così in questi anni ho visto crescere i frequentatori della barca dei “figli contro i padri”, nonostante i figli cominciassero a passare l’età limite, quella della tarda adolescenza, nonostante cominciassero a diventare a loro volta padri e madri. Anzi. Li ho visti ancor più accecati di rabbia e illogicità, affascinati dai discorsi dei telegiornali, dalle statistiche, dalle teorie dei governi tecnici.
Li ho sentiti diventare megafoni delle banalità calate dall’alto e vecchie come la storia d’Italia e primi firmatari di elenchi di supposizioni diventate come dati di fatto inconfutabili, pur senza dati matematici a supporto.
Li ho visti svegliarsi a scoprire le buste paghe dei politici, dimenticandosi di essere elettori da vent’anni.
E li vedo oggi teorici del nulla, come piace ai media, cercare il riscatto nella visibilità sulla scia dei pensieri che al momento vanno per la maggiore. Guai a metterci la faccia quando occorre andare in posizione “ostinata e contraria”. Guai ad esserci in piazza, quando ci si ritrova a dire di no, quando occorre essere solidali a chi sta peggio, quando occorre incontrarla quella parte che è rabbiosa sul serio, quando occorre capire che cosa succede.
E non mi si fraintenda. Non dico che stiamo bene. Ma credo che il nostro malessere richieda altre cure che 4 parole d’ordine. Mentre credo che 4 parole d’ordine siano comode ad alimentare un dibattito senza soluzione che proprio per questo da anni si va alimentando retoricamente.
Non siamo una generazione che non viene rispettata: siamo una generazione che non si rispetta. Che non prova a imparare come funziona un po’ il diritto del lavoro quando vede che le cose non vanno bene, che non si coalizza per sistemare condizioni di sfruttamento, ma magari spera che sia la volta buona che licenziato sia quell’altro, che condanna tizio perché “se non trova lavoro è perché ha studiato filosofia” e condanna caio perché “se non trova lavoro è perché non ha la testa per studiare”.
E siamo una generazione che non rispetta: perché se si incolpa una manciata di persone con pensioni da lusso dimenticando la stra grande maggioranza di donne pensionate a 500 euro al mese, se si dimentica che la stragrande maggioranza dei nostri padri avrà una pensione da operaio o da piccolo impiegato (e la maggioranza delle nostre madri potrà contare solo sulla reversibilità della pensione del marito) allora vuol dire non aver cura del Paese, non saperlo leggere oltre al proprio singolo egoismo, non saper guardare al futuro neppure della propria famiglia, accettare il racconto di qualche polemico di turno perché fa comodo così.
Non siamo una generazione che vede il merito non premiato: siamo un Paese coi salari bassi, con condizioni di lavoro, prima ancora dei contratti, pietose. Siamo forse le prime manciate di persone che hanno potuto studiare senza avere il dubbio di poterlo fare pur proveniendo dalle famiglie meno abbienti: ma la diseguaglianza sociale non si annulla quasi mai neppure con una laurea. Non c’è meritocrazia senza uguaglianza sociale e senza pari rispetto tra i generi. Eppure sono poche, pochissime le menti brillanti della mia generazione che si impegnano sul serio su questi due campi.
Ciò nonostante la parola meritocrazia ha trionfato sovrana: senza accorgersi poi che è servita soltanto a diffondere categorie di merito settarie e ridicole. Ognuno potrebbe inventarsi i propri parametri di valutazione riuscendo comunque a lasciare indietro poveri, donne e chi poco ama auto compiacersi.
La meritocrazia pare la panacea che porterà tutti ad essere dirigenti e leader di partito. Ma non funziona così. Non inventiamoci soluzioni a condizioni che non abbiamo neppure provato ad analizzare.
Non siamo una generazione che debba riprendersi l’impegno: chi finora non ha mosso un dito perché non l’ha fatto? Perché ha deriso chi spendeva la propria adolescenza nei partiti, chi, nonostante il dolore di Genova 2001, nonostante la disfatta dei movimenti pacifisti dopo il 2003, ha continuato a credere che la partecipazione fosse importante? E’ più facile dire che “nessun sindacato ci può rappresentare” che far in modo che i sindacati siano rappresentativi. E’ più facile denigrare il lavoro delle RSU che spronarlo e valorizzarlo o andare ad ascoltare quelle storie che i media non vogliono raccontare. E’ più facile contribuire a critiche generalizzate senza pensare che oltre al mondo sindacale cosa c’è oggi a poter venire incontro all’impiegata o commessa licenziata dopo la maternità?
E’ più facile pensare che “eh, il sindacato tutela i garantiti” salvo poi scoprire che poteva aiutare anche te, per quanto possibile, magari provando a chiedere, insistendo, osando.
Senza parlare poi dell’impegno che comunque tanti non più ragazzi ci mettono nell’associazionismo e nel volontariato, mondi sempre più svuotati dalla nostra generazione, per quanto la meno impegnata nella storia a fare figli.
La dimensione dell’impegno più che perduta si è delegata all’estremo. Forse perché siamo stati troppo attenti, in massa, a pensare più a una narrazione dell’IO che a una del NOI?
Ecco, non siamo stati grandi sorgenti di cose da dire: eppure qualcuno ne ha dette e fatte. La partecipazione non è mai di massa ma dire che va recuperato l’impegno rischia di significare la volontà di negare che fino ad ora ce ne è stato, significa avere in mente magari un percorso che ne taglia fuori un pezzo e no, non mi piace.
E infine mi rifiuto che la progettualità individuale sia quella di un mutuo per la casa: proprio perché a ragionare così si perde ogni minimo aggancio con quella che è la progettualità collettiva.
La casa oggi è quel dramma che si trasforma in sfratto in maniera crescente: quando 2/3 di uno stipendi in tante città sono la soglia minima per trovare un tetto in affitto c’è qualcosa che non funziona.
In questi anni non c’è stato governo, Regione che non si siano mossi a finanziare e aiutare i mutui per la prima casa: quasi che arrivati a 30 anni comprarsi un tetto fosse un dovere, da single o da accoppiato (e ditemi voi se non c’è follia a pensare di pagarsi da soli 80.000 euro di un miniappartamento dal valore gonfiato dal bum del mattone con un mutuo di 30-40 anni. Magari ritorvandosi dopo 6 anni in cassa integrazione.). Si è gonfiata l’industria del cemento dimenticando del tutto l’edilizia popolare, il sostegno per chi i 200.000 euro per comprare una casa con 2 stanze non li ha né sarà probabilmente nelle condizione di averli. Non abbiamo saputo pronunciare la parola “case popolari” e ci vergognamo a pretenderle. Quasi fosse una vergogna pensare che un tetto debba essere un diritto per tutti, prima che possesso.
E no, non è che “i nostri genitori hanno potuto e…”. Ne conosco tante, tantissime di famiglie che ancora pagano mutui cominciati a pagare 20 anni fa, dopo aver venduto l’ultimo campo dei genitori per poter chiedere un prestito. E chissà, quando avranno finito di pagarla forse dovranno venderla per pagare la retta in casa di riposo.
Mentre i ricchi diventano sempre più ricchi, anche a trentanni, e i poveri sempre più poveri, a sessanta come a quarantanni, davvero tanta gente crede che il senso di ricostruzione del Paese sta nel conflitto tra giovani e vecchi?
Davvero è una cultura utile al futuro?
Io penso di no.
Ed ecco, con me credo ne sia convinto pure qualcuno magari appartenente a quel 60% abbondante di 30/40enni italiani senza i mezzi e le conoscenze per accedere a Internet e leggere le elucubrazioni mentali di qualche gruppetto fortunato.
Conoscenze, saperi, idee, valori: chi ne ha dovrebbe sempre metterne a disposizione senza pretendere in cambio per forza qualcosa. E’ dovere di cittadinanza. E se c’è una responsabilità generazionale che ci spetta è quella di costruire dialoghi, dibattiti, relazioni: non permettere che siano altri a deviare il racconto sul Paese che vogliamo non per forza di cose tutti uguale, ma per forza di cose coeso e vivibile.
Abbiamo avuto tanto più di quanto siamo abituati a dire: è tempo di dare, e dare è anche pretendere e portare a casa contratti di lavoro dignitosi, proporre un modello di welfare che si prenda cura dei nostri genitori, pensare a come far si che un ragazzo non abbia paura di denunciare chi lo fa lavorare in nero. Sapere che così si fa un Paese migliore. Ad ogni età.