Galassia Zuckerberg – inattuali dal webI contenuti virali sono realmente virali?

Quando si parla di un contenuto virale ci è immediatamente chiaro che ci si sta riferendo a un contenuto che circola in modo veloce, seguendo un percorso di passaparola fra diversi utenti della ret...

Quando si parla di un contenuto virale ci è immediatamente chiaro che ci si sta riferendo a un contenuto che circola in modo veloce, seguendo un percorso di passaparola fra diversi utenti della rete, proprio come si propaga un virus. Da qualche tempo seguo con interesse gli studi che analizzano questo fenomeno perché, a dispetto del molto parlare che si fa di informazione, video e link virali, salvo casi eclatanti che sono diventati oggetto di meraviglia e di studio, non si tratta di casi frequenti né le cui condizioni sono facilmente individuabili e replicabili. La letteratura è vasta e recentemente la mia attenzione è stata attirata da uno studio di Daniel G. Goldstein, Sharad Goel e Duncan J. Watts che fornisce qualche dato inaspettato e controintuitivo. I tre ricercatori di Yahoo! Research hanno infatti analizzato sette domini online con l’obiettivo di comprendere i meccanismi di propagazione e diffusione dei contenuti al loro interno (Yahoo! Kindness; Zinc; The Secretary Game; Twitter News Stories; Twitter Videos; Friend-Sense e Yahoo! Voice). Si tratta di siti e/o servizi con caratteristiche molto differenti e che sono stati osservati in tempi diversi.

Lo studio, presentato alla 13th ACM Conference on Electronic Commerce (EC’12), si avvia riflettendo sul modello che assimila la diffusione di adozione di un prodotto o contenuto alla propagazione di una malattia infettiva. Esso presuppone, infatti, che a partire un numero limitato di casi (chiamati seed) si avvii un “contagio” che prosegue per diversi stadi come una cascata. Gli studi che hanno analizzato però la diffusione e l’adozione di prodotti si sono spesso concentrati sui volumi diffusi nel tempo e non tanto su come il “contagio” abbia avuto luogo, producendo studi compatibili sia con l’ipotesi di una diffusione virale sia con altri meccanismi. Oggi la disponibilità di contenuti online di cui si può tracciare il percorso di diffusione apre un terreno nuovo di indagine. I ricercatori evidenziano un importante punto di differenza fra i due processi: una malattia si contrae, di norma, in modo involontario, mentre per un contenuto online l’esposizione, ovvero la semplice visione, può essere involontaria ma il “contagio”, ovvero l’adozione, è un processo volontario (ad esempio fare un retweet, inviare un link, invitare un amico a iscriversi a un servizio, etc.) ed è su quest’ultima che loro si concentrano. Gli autori passano poi alla canonica review della letteratura, che vi risparmio sottolineando solo due punti. Primo. Essa ha assodato che i seed, ovvero i punti di partenza del processo virale, non sono intercambiabili ma la struttura globale e locale del network può influenzare l’ampiezza e la profondità della cascata. Secondo. Il modello di propagazione virale dell’informazione presuppone che un numero relativamente ridotto di seed possa alimentare un numero ampio di adozioni in un processo a più stadi. Lo studio vuole focalizzarsi proprio su questo punto, indagando quando questi processi a cascata avvengono e quanto contano sulla percentuale totale di adozione. Un obiettivo reso più difficile dal fatto che non esiste un campione rappresentativo dei tentativi di diffusione dal quale trarre alcuni parametri di base.

A quali conclusioni approdano quindi i tre studiosi? In primo luogo al fatto che la diffusione a più stadi nel loro campione sia alquanto rara e soprattutto che la maggioranza delle adozioni avvenga a un grado di distanza dal seed e meno del 10% a più di due gradi. I modelli di diffusione a cascata sono dunque molto rari e quando avvengono non raggiungono i livelli di ampiezza presentati nei modelli teorici. Nella diffusione delle malattie ciò che consente di propagarle a molti gradi dal seed originario è la loro durata temporale. Per esempio, l’influenza spagnola del 1918 che infettò circa 500 milioni di persone durò fino al 1920, avendo tempo di spargersi in modo ampio. Una seconda conclusione riguarda Twitter. Dei sette domini studiati, tutte le diffusioni a cascata sono state individuate infatti su questa piattaforma e in due dei quattro casi più eclatanti la maggior parte delle adozioni è dovuta a un utente con un considerevole numero di follower, mentre gli altri due casi sono collegati al lancio di un video di Justin Bieber su cui oltre all’attenzione spontanea degli utenti della rete si era creato un intenso interesse da parte dei media. In sostanza, concludono gli autori, i casi più importanti avvengono con meccanismi diversi dall’adozione peer-to-peer e convergono piuttosto sui classici modelli di influenza, come quelli di Katz e Lazarsfeld. Un ulteriore fattore che va considerato è la presenza o l’assenza di meccanismi di vantaggio economico che possono essere un valido incentivo alla diffusione delle informazioni. Un terzo punto di attenzione è il fatto che i meccanismi di propagazione nei social media si differenziano anche dai virus elettronici che seguono invece meccanismi di riproduzione molto più simili a quelli delle malattie infettive proprio perché si diffondono, almeno nei casi normali, senza un intervento volontario da parte dell’utente.

Gli studiosi non escludono, quindi, che i meccanismi di propagazione virale esistano ma ribadiscono di non averne evidenza nei loro dati. Sebbene sia possibile aumentare la performance di adozione, il processo di diffusione virale, inteso nell’accezione della diffusione delle malattie infettive, nei social media rimane improbabile. I ricercatori precisano, inoltre, che è possibile che si verifichino via e-mail propagazioni di informazioni che durano per anni (in stile “catena di Sant’Antonio”), ma non si sono verificate nei loro dati e in più, sebbene siano fenomeni interessanti da indagare, il loro successo andrebbe pesato con i casi in cui non la propagazione non si avvia.

Si tratta di uno studio interessante perché analizza la diffusione delle informazioni su un’ampia base di dati, proveniente da diverse fonti e osservata in diversi periodi, paragonabile in qualche modo a un’osservazione naturale a posteriori dei comportamenti in alcuni contesti online. In maniera estremamente sintetica, lo studio sottolinea quanto sia complicato creare un meccanismo realmente virale e che casi di diffusione virale in modo naturale si possano verificare ma non sia un evento frequente. Dalla rarità con cui si crea un evento virale in modo spontaneo e imprevedibile emerge anche quale peso abbiano ancora le leve di marketing e i mass media nella scelta di quali contenuti condividere e la necessità di studiare a fondo le leve anche psicologiche di questi meccanismi. Ovviamente con leve di marketing si possono intendere sia quelle ideate ad hoc dalle aziende sia quelle attivate da singoli soggetti che riescono a creare una diffusione davvero virale di un loro contenuto, fatto di cui ci sono eclatanti esempi. Non solo. Facendo un piccolo e banale esercizio di auto-osservazione ho notato per esempio che se vedo un link che desta la mia attenzione su Twitter e mi sposto poi sul sito da cui è tratto il contenuto per leggerlo, se lo ritengo interessante e voglio segnalarlo, a volte torno su Twitter e faccio un retweet, altre volte twitto la notizia direttamente dal sito. La scelta dipende dal device da cui sto navigando: da cellulare mi risulta più comodo tornare sull’applicazione di Twitter, dal pc invece twitto dal sito anche perché in genere apro subito il link in una scheda ma lo leggo quando ho tempo e se lo stream di Twitter si è nel frattempo aggiornato mi risulta difficile risalire al tweet da cui ero partita. Oltre alle motivazioni psicologiche, quindi, risultano centrali anche le pratiche e i device utilizzati. Di conseguenza si rende sempre più necessario incrociare l’analisi dei big data con quella di analisi più circoscritte e qualitativamente orientate.

Si tratta di ricerche utili non solo per elaborare strategie più efficaci a livello di marketing o di advertising ma anche per conoscere meglio i meccanismi con cui in rete circolano le informazioni, per capire se sono simili a quelli che avvengono offline o se davvero ci stanno conducendo a dinamiche sociali differenti. Sarebbe utile, per esempio, provare ad approfondire anche le dinamiche di network più piccoli, fare analisi comparative a livello locale in diversi contesti e sui differenti settori nonché comprendere ancora meglio il ruolo delle persone che si configurano come punti di riferimento per la rete e sono dotati di molti contatti. A questo proposito non ho usato volontariamente la parola opinion leader o influencer, perché si tratta di un tema davvero ampio e su cui magari ci sarà occasione di tornare in un altro post.

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