ParsifalIl giustizialismo e gli improvvisi tormenti di Repubblica

Chissà se nella temperie di questi giorni a “Repubblica” sarà venuto in mente a qualcuno dei colleghi di Largo Fochetti di rileggersi l’ultima lunghissima intervista di Giorgio Bocca, che di quel g...

Chissà se nella temperie di questi giorni a “Repubblica” sarà venuto in mente a qualcuno dei colleghi di Largo Fochetti di rileggersi l’ultima lunghissima intervista di Giorgio Bocca, che di quel giornale era stato per lustri e lustri una firma di punta. Da ruvido montanaro piemontese, Bocca confessava la sua amarezza e il suo sconcerto “…nel vedere il mio giornale, Repubblica, dedicare le sue prime trenta pagine alle puttane di Berlusconi. Ma chi se ne frega ! Berlusconi si scopi chi vuole e non è reato. Ma questa è la politica ? E questa è l’informazione ?…”. Le intercettazioni sul “bunga-bunga” erano il pane quotidiano del giornale che, adesso, (senza neanche un minimo esame di coscienza) prende moralisticamente le distanze dal “giustizialismo” intrinsecamente “di destra” spinto nel “campo della sinistra – scrive Ezio Mauro – con la delega alle Procure non per la giustizia, ma per la redenzione della politica , considerata tutta da buttare come una cosa sporca”. (cfr. appunto Giorgio Bocca qui sopra).

Su queste colonne Max Gallo pone domande legittime (e scomode) sulla sinistra e sul clima manettaro allevato per vent’anni da Mani Pulite in poi e proprio dentro l’informazione militante di sinistra che del giustizialismo si è ampiamente pasciuta. Facile voltar pagina, dire “non ci gioco più” e consegnare all’oblìo un lungo presente e un lunghissimo passato vissuto sempre sullo stesso registro. Da vent’anni appunto: nel 1992 chi scrive era uno dei tanti caporedattori del “Corriere della Sera” e ricorda benissimo il trauma all’informazione provocato lì dall’arrivo improvviso alla guida di Paolo Mieli, che dalla covata di Repubblica era uno dei principali protagonisti. La direzione di Mieli non solo “mise la minigonna” a Via Solferino, ma buttò scientemente nel cesso tutte le regole eterne del buon giornalismo: dalla pluralità delle fonti , alla loro puntigliosa verifica, all’obbligo di sentire tutte le parti coinvolte fino alla corretta competizione tra le testate concorrenti e persino al naturale equilibrio nella titolazione.

No, bisognava diventare la “buca delle lettere” delle inchieste, santificare la casta dei Procuratori, unici difensori della vera democrazia, e disprezzare la politica, gli eletti dal popolo sovrano. Non solo: si inventò persino il “pool delle prime pagine”, per cui a una certa ora della sera venivano concordati da Via Solferino i titoli principali con la “Repubblica”, “La Stampa” e “L’Unità”in modo da fornire una linea informativa completamente uniforme. (Lo ha ammesso tardivamente ma pubblicamente Antonio Polito, allora al comando della macchina di “Repubblica” come caporedattore centrale). In quel “Corriere” di Mieli chi sosteneva le ragioni deontologiche della semplice onestà professionale venne messo subito ai margini, schiacciato dal dilagante conformismo forcaiolo.

E’ capitato con molti colleghi di interrogarsi a lungo sulle ragioni di questa degenerazione che ha prosperato a lungo e che continua tutt’ora. E la risposta, confermata sul campo, sembrava essere una sola: che cioè Mieli era il capofila di un folto stuolo di intellettuali sessantottini (tutti genericamente di sinistra) che avevano trovato nel giornalismo la scorciatoia di “fare politica” senza la seccatura di doversi sottomettere al giudizio democratico del popolo, presentandosi alle elezioni. Coltivando altresì la velleità e l’illusione di poter condizionare dall’esterno (e in stretta simbiosi con le Procure) le scelte della politica e di orientarne, (se non di imporre), la cultura e la stessa visione del mondo.

Poi però capitava che si votasse: e, guarda caso, l’intero circuito mediatico-giudiziario, oltretutto carico di uno spocchioso complesso di superiorità, diventava regolarmente il micidiale “boomerang” della sinistra politica, illusa e sgarrettata nelle sue “gioiose macchine da guerra” da un’informazione militante che “faceva il tifo” (e ammanniva lezioncine) invece di fare la prosaica fatica di raccontare la sfaccettata e complessa realtà del Paese così com’era e non così come si voleva che fosse.

Da quel “mielismo” sono sgorgate legioni di epigoni e di tribuni televisivi che hanno oggettivamente assicurato una lunghissima vita politica al berlusconismo. Mieli poi ha confessato a mezza bocca i suoi “eccessi”, compreso l’avviso di garanzia a mezzo stampa al Cavaliere (che risulterò poi assolto per quel caso a formula piena). Ma resta e continua ancora l’illusione di una buona parte della sinistra impigrita che a far politica e a sconfiggere gli avversari alle elezioni bastino e avanzino i verbali e le intercettazioni degli intoccabili magistrati.

Se c’è oggi uno dei settori che incidono di più sulla crisi economica è proprio il “disastro giustizia”, che con le sue spaventose inefficienze, i suoi tempi biblici, la sua complicazione normativa da Azzeccagarbugli, ha un costo pesantissimo e intollerabile per un Paese appena civile. E che ha semmai ha approfittato del clima giustizialista per accrescere i propri privilegi e non essere mai chiamata a rispondere delle proprie colpe e dei propri errori.

Anche quando distrugge la sinistra di governo: le inchieste sul nulla hanno abbattuto la giunta di sinistra dell’Abruzzo di Del Turco (poi assolto per non aver commesso il fatto). O l’ultimo governo Prodi, anch’esso costretto nel 2008 a cadere dalle inchieste sull’allora Guardasigilli (pure lui assolto con formula piena). L’informazione della sinistra forcaiola vuole solo che vinca Berlusconi (anche perché altrimenti non saprebbe che fare). Se adesso se ne accorge anche Repubblica… complimenti… hanno impiegato vent’anni per rendersene conto,..

X