Main StreetQuando la luce muore prima dell’alba

Alla cara Jovana, che oggi - 31 agosto 2012 - avrebbe compiuto 22 anni. -------------------------------------------- Senza sapere se avrei resistito a quell’esperienza di dolore, salii sulla navett...

Alla cara Jovana, che oggi – 31 agosto 2012 – avrebbe compiuto 22 anni.

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Senza sapere se avrei resistito a quell’esperienza di dolore, salii sulla navetta interna dell’Accademia. Svoltato per Althea Gibson boulevard e, di seguito, lambita la laguna adiacente al campo da golf, il campo n.24 sembrava avvicinarsi. Era la prima volta che una morte prematura di un’atleta che conoscevo si affacciava sul cammino della mia esistenza e la ferita inferta al mio cuore era impressionante. L’immagine di Jasmina Premovic sulla panchina , che si deterge la fronte dal sudore, mi perseguitava anche in pieno giorno. Che quella superficie di gioco, dove la ragazza serba di nascita si era allenata tutti i giorni per anni, potesse continuare ad esistere senza di lei, era qualcosa che la mia mente si rifiutava di accettare; e anche se, nelle ultime settimane, Jasmina aveva raramente albergato nei miei pensieri, ebbi la netta sensazione di averla incrociata per strada, come se fosse ancora viva. Mi tornò vividamente in mente il giorno in cui suo padre Bojan venne da me per confrontarsi sulla scelta del college della sua primogenita. Era vestito da lavoro: completo grigio di lana a camicia di cotone bianca. Odorava di aria fredda, lo ricordo come fosse ieri. Era sereno e, più volte nel corso del colloquio, un enorme sorriso gli si disegnò sulla faccia.
Entrai in campo e vidi che Barbara Johnson, la compagna di stanza di Jaz, come la chiamavano qui a Fresh, aveva organizzato la commemorazione nei dettagli. Due ragazze distribuivano acqua e succo d’arancia ai presenti e nei pressi della rete una bacheca raccoglieva dozzine di foto e di particolari della vita di Jasmine, come se potessero recare conforto a qualcuno. Quando mi avvicinai, una donna sui quarant’anni mi passò il suo drink…sottintendendo che ero troppo lacerato dal dolore per avere la forza di chiederlo da solo.
La a me cara “Mamma” Tanja Premovic, con i capelli raccolti in un voluminoso chignon e il volto imprigionato in occhiali da sole alla Jackie Kennedy, era seduta su uno strapuntino all’estremità della superficie di gioco. Quando mi chinai su di lei e le dissi: “Ti sono vicino”, lei mi strinse a sé, proruppe in un pianto straziante e non disse nulla. L’abbraccio, lo ricordo ancora oggi, fu troppo forte perché potei esserne l’unico destinatario.
Barbara si aggirava tra i presenti, ringraziandoli con una stretta di mano. Dopo aver scambiato qualche parola con lei, dato che ritenevo fosse inopportuno mettersi a discutere sulle dinamiche di un tragico incidente stradale, andai a dare uno sguardo alle foto della bacheca e lì cominciai a chiedermi quanto poco sul serio gli esseri umani prendano la possibilità della propria morte. In genere, dopo il morire della luce di entrambi i genitori, gli individui cominciano a vedere la propria morte come qualcosa di concreto. Ma nel caso di Jasmina era avvenuto il contrario: i genitori sono sopravvissuti ad una ragazza di diciannove anni, che aveva ancora moltissime possibilità rimaste incompiute. La scomparsa di quella che incarnava, meglio di altre coetanee, il modello di atleta studente – spesso l’espressione suona come un cliché, me ne rendo conto – addolorava profondamente ciascuno di noi perché tante, troppe, erano le cose importanti che Jasmina non aveva ancora fatto. Mi colpì una foto che la ritraeva in posa con una gonna a palloncino e una piccola blusa di chiffon, a fiori, che richiamava i suoi occhi verdi. Uno scatto che la immortalava romantica e ribelle; rendeva più sopportabile, anche se non meno doloroso, il mio soffrire. Io e Barbara eravamo senza fiato, e ci guardammo. Di una cosa ero lieto: la presenza di oltre cento persone su un campo da tennis, per salutare Jasmina, riduceva almeno temporaneamente il potere della morte di recidere ogni legame con i vivi. L’aria profumava delicatamente di torta di mele, mi guardai intorno alla ricerca del banco coi rinfreschi: c’era un dolce soffice affettato, c’era dell’ananas già tagliato e due caraffe, una piena di succo d’arancia e l’altra di qualcosa di simile al Mountain Dew. In piedi, vicino al banco, individuai coach Alvarez che faceva dei gesti per attirare la mia attenzione. Dopo qualche istante, mi sì avvicinò (emanando uno strano odore di zucchero filato), e sussurrò: “Che morte assurda, travolta da un semirimorchio che invade la corsia opposta dopo un malore del conducente. Sai cosa penso…?”
“Tiriamo fuori i palloncini, ragazzi!”, esclamò a quel punto la Johnson, con voce rotta dal pianto. “Fuori i palloncini, siamo pronti!”. Così, due dei più giovani tra i presenti fecero partire un rapido passamani di palloncini bianchi, il colore ufficiale delle divise dei “Gufi” di Florida Atlantic University, il college in cui Jaz si era distinta per dedizione e rendimento nella stagione da matricola. Ci fu una breve attesa prima che i primi palloncini volarono via, alti nel cielo luminoso. Ebbi giusto il tempo di lanciare una rapida occhiata ad Alvarez. Aveva un aspetto così comune da renderlo quasi invisibile in mezzo alla folla. Tuta da ginnastica, faccia, capelli, tutto aveva un’aria qualunque. Non riuscivo a immaginarlo fare qualcosa di diverso dal dare disposizioni su un campo da tennis per il resto della vita.
E infine, quando l’ultimo dei palloncini ebbe preso il volo, si levò un applauso, dapprima incerto, poi fragoroso, e la linea dell’orizzonte tornò a distendersi davanti a noi, con le vele dei windsurf, nel Golfo del Messico, che ne spuntavano fuori. Poi un ragazzo biondo, visibilmente emozionato, con la faccia contratta dal dolore, prese la parola per ricordare come la presenza dell’essere umano sulla terra sia fugace quanto un’ombra e quanto sia importante non stressarsi per le piccole cose e raggiungere prima possibile quel livello di serenità, di equilibrio, destinato a conservarsi in eterno dopo la morte. “Che Dio conceda pace all’anima di Jasmina e offra conforto ai suoi cari e a quanti soffrono la sua mancanza”, concluse il giovane con voce tremolante mentre la brezza scompigliava i suoi capelli.
Mi stavo chiedendo se la morte non fosse uno stato abbastanza simile al nirvana della tradizione buddhista, quando sobbalzai per l’improvviso catapultarsi in campo di una figura che, nell’arco di pochissimi secondi, girò sui tacchi e scappò sul Rod Laver Boulevard, dalla parte che conduceva alle piscine. Non potei fare a meno di allontanarmi dal campo, ma quando misi piede sul vialetto la figura si era volatizzata. Rimasi a lungo lì impalato. Quando tornai, Alvarez me lo lesse in faccia che avevo assistito a qualcosa di strano. “Cos’è successo?”, mi chiese con un sussurro.
“Niente, era l’addetto alla manutenzione che aveva sbagliato campo”.
L’istantanea scattata dai miei occhi, in realtà, era stata quella di una sagoma scura, forse nera, che aveva una fretta incredibile di uscire dal mio campo visivo. Feci un lieve cenno del capo ad Alvarez, ma nessuno dei due disse niente. Il ragazzo biondo aveva concluso i saluti e lì, all’ingresso del campo, si sentiva solo lo stridio dei gabbiani accompagnato dal grido lontano di un pellicano.
“Sarà banale, ma Jasmina aveva tutte le qualità per essere amata: era bella, intelligente ed era pure una buona atleta. Stavo cercando di dirti questo, poco fa”.
Questa fu la cosa che disse Alvarez per turbare quel silenzio, scuotendo la testa: fui sorpreso quando realizzai che uno come lui, così legato in passato a Jasmina, stava facendo il nobile sforzo di reprimere la rabbia per quell’assurda morte. Dopo aver guardato i suoi occhi spenti, privi del solito bagliore, decisi di lasciar perdere quell’argomento. Ero stanco.

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