ÈvvivaSe la genitorialità è ancora tutta a carico della donna (articolo interessante e da leggere, almeno in questo blog)

"La decisione di non fare figli è un progetto familiare proprio come la decisione di farne dieci" scrive Claudio Rossi Marcelli nella sua rubrica "Dear daddy" sull'ultimo numero di Internazionale. ...

“La decisione di non fare figli è un progetto familiare proprio come la decisione di farne dieci” scrive Claudio Rossi Marcelli nella sua rubrica “Dear daddy” sull’ultimo numero di Internazionale.

Il giornalista ha risposto così alla richiesta d’aiuto di una donna subissata dalle continue accuse di egoismo edonista indirizzate a lei dalla sua migliore amica.
Quella della donna, una posizione legittima condivisa col compagno, riporta alla mente un’antica diatriba – che vide l’interruzione dell’amicizia fra i due, poi ripristinata – tra un colosso della letteratura italiana, Italo Calvino, e Claudio Magris. Nella sua risposta a Magris, Calvino descrisse l’intero universo degli elementi razionali che, a suo avviso, avrebbero dovuto intervenire nella scelta di mettere o meno al mondo un figlio.
Scrisse l’intellettuale nato a Cuba sulle colonne del Corriere:

“Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli”. “Solo chi, conclude, – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire”.
La possibilità morale e materiale per l’appunto. Perché un conto è la legittima conversazione da salotto sull’opportunità di mettere in piedi un progetto familiare piuttosto che un altro, l’altro è non vedere minimamente tale opportunità. La scelta “egoista-edonista” di non metter su famiglia spesso è infatti legata ad un’impossibilità materiale e alla mancanza di condizioni (in primis economiche e sociali) adeguate in grado di consentire una serena genitorialità.
Conciliare lavoro e famiglia per le donne italiane è una pratica funambolica. Lo confermano gli ultimi dati Istat che disegnano uno scenario ormai noto. C’è uno scarto di 11 punti tra occupazione maschile e femminile in mancanza di figli (76% maschi, 65% femmine) e uno di ben 32 punti con l’arrivo del primo pupo (90% i papà, 58% le mamme occupate). La forbice tra maschi e femmine si allarga con il secondo bambino con solo il 51% delle donne che restano al lavoro (mentre il tasso di occupazione dei papà resta invariato) fino ad aprirsi sguaiatamente con l’arrivo del terzo o quarto bambino (in tal caso è il 34% delle donne a restare al lavoro contro l’85% degli uomini). Il congedo parentale obbligatorio per i papà di tre giorni, un altro degli atti simbolici del Governo attuale, resta un inutile ago nel pagliaio dell’inadeguatezza e totale insensibilità dell’esecutivo davanti alla questione. Perché se è vero che c’è un elemento culturale che vuole la donna italiana relegata nello stilema dell’angelo del focolare, c’è da dire che il tema è tutto fuorché una mera questione familiare. Un ruolo rilevante lo giocano in primis istituzioni – che hanno scaricato totalmente sulle donne la cura di bambini e anziani, e che con la chiusura dei rubinetti alle politiche sociali renderanno la pratica di sostituzione del sistema di welfare a carico delle donne insostenibile – e impresa dove, come afferma la giuslavorista Roberta Bortone sul Fatto quotidiano, “il lavoro è ancora apprezzato in termini tayloriani” e “vige la presunzione per cui un figlio finisce a carico delle cure femminili”.
Se è vero che all’estero, a partire dai paesi scandinavi fino alla Francia e alla Spagna, sono state messe in campo politiche tese ad alleggerire il carico sulle spalle delle donne, è altrettanto vero che il tema resta attuale anche in un paese ritenuto avanzatissimo come gli Stati Uniti d’America dove ha fatto scalpore la decisione di Anne-Marie Slaughter (preside della Woodrow Wilson school of public and international affairs di Princeton e direttrice della pianificazione delle politiche al dipartimento di stato statunitense dal gennaio 2009 al febbraio 2011) di rinunciare al prestigioso incarico nel dipartimento di stato sotto il diretto comando della Clinton per stare con i figli. La mancanza di strutture e servizi, a partire dagli asili nido, è tra i fattori che maggiormente pesano sulle donne impedendone l’accesso al lavoro. Nel 2000 a Lisbona fu fissato l’obiettivo europeo del 33% di accessi ai nido ma dieci anni dopo solo 23 bambini su 100 vi hanno trovato posto. Nell’anno scolastico 2010/2011 – secondo i dati Istat – risultano iscritti agli asili nido comunali 157.743 bambini di età tra zero e due anni, mentre altri 43.897 usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti.
Nel 2010 la spesa impegnata per gli asili nido da parte dei Comuni o altri enti territoriali delegati dai Comuni è di circa 1 miliardo e 227 milioni di euro, al netto delle quote pagate dalle famiglie.
Nonostante il graduale ampliamento dell’offerta pubblica (i bambini tra zero e due anni che vivono in un Comune che offre il servizio sono passati dal 67 al 76,8% nel 2010- 2011) la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0% dei residenti tra zero e due anni dell’anno scolastico 2003/2004 all’11,8% del 2010/2011.
Rimangono molto ampie le differenze territoriali: la percentuale di bambini che usufruisce di asili nido comunali o finanziati dai Comuni varia dal 3,3% al Sud (era il 3,4% l’anno precedente) al 16,8% al Nord-est (era il 16,4%); la percentuale di Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 20,8% al Sud (era il 21,2) al 78,2% al Nord-est (era il 77,3%).
Altro aspetto è quello della tipologia del contratto di lavoro, una recente denuncia di Nidil Napoli sottolinea come la precarietà sia “non solo donna ma anche e soprattutto meridionale”, e l’aspetto reddituale.
“Oltre il 50% delle lavoratrici tra i 15 e i 24 anni è atipica e oltre un quarto delle giovani occupate dai 25 ai 34 anni ha un’occupazione instabile” denunciava la categoria CGIL che si occupa delle nuove tipologie di lavoro sulla base dei dati III rapporto IRES.
Nel 2009 solo a Napoli e provincia sono state 457 le donne che hanno optato per le dimissioni “volontarie”. I motivi più frequenti? Al primo posto un paradossale “non conviene economicamente” il che vale a dire che in mancanza di servizi sociali adeguati alla donna conviene molto di più stare a casa che lavorare. Al secondo ancora il costo dei servizi di supporto alla famiglia, al terzo gli orari insostenibili, al quarto il carico di lavoro e in ultimo ancora l’assenza di aiuti alla famiglia (fonte dati dossier “Le dimissioni volontarie delle lavoratrici madri” curato da CGIL CISL UIL e Provincia di Napoli nel 2011).
Ma quel “non conviene economicamente” nasconde un ulteriore aspetto rilevante: quello del divario retributivo tra uomo e donna.
“Per gli uomini occupati”, afferma il rapporto annuale Istat 2012, “è relativamente più facile raggiungere livelli più elevati di reddito da lavoro che per le occupate. Tale differenza sussiste per qualunque livello di reddito, ma al crescere di quest’ultimo il divario di genere acquista un peso sempre più rilevante. Questo risultato sostiene l’ipotesi dell’esistenza di un “soffitto di cristallo” che mantiene la maggior parte delle occupate sotto i livelli più alti di reddito”.
Infine c’è da rilevare un’ulteriore questione: l’età media in cui un uomo e una donna si ritrovano a delineare il loro progetto di vita familiare. Si tratta sempre più spesso di over 35, riusciti dopo immensi sforzi e grazie a straordinarie congiunture astrali ad uscire di casa. Come riporta l’economista Tito Boeri ancora su Internazionale “nel 2010 erano quasi sette milioni i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni che vivevano ancora con i genitori. I giovani italiani coabitano con la famiglia d’origine molto più spesso e più a lungo rispetto ai coetanei del resto del mondo. Molti puntano il dito sugli aspetti culturali: alcuni accusando i figli di essere “bamboccioni”, mentre altri sostengono che i genitori sono iperprotettivi (“babboccioni”)”. Ma in che misura le scelte dei singoli progetti di vita – siano essi legati all’uscita di casa o all’avere o non avere figli – sono imputabili esclusivamente a scelte e stili di vita?

Michela Aprea per Agoravox.it (http://www.agoravox.it/Se-la-genitorialita-e-ancora-tutta.html)

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