Freak out – La musica che ti scompiglia65 Days of Static, “The world is over”

A occhi chiusi si potrebbe credere che riaprendoli ci si ritrovi su qualche superficie di non so quale galassia, e si potrebbe anche pensare: "c***o, almeno qui la musica è buona!". Atmosfere tipic...

A occhi chiusi si potrebbe credere che riaprendoli ci si ritrovi su qualche superficie di non so quale galassia, e si potrebbe anche pensare: “c***o, almeno qui la musica è buona!”.

Atmosfere tipiche della sci-fi più estrema, sperimentata grazie a una consapevolezza del mondo che difficilmente lascia spazio a sogni utopici, sono la caratteristica dei 65 Days of Static, il gruppo inglese nato nel 2001 che ieri sera ha dominato il piccolo palco del Circolo degli Artisti di Roma. Se gli chiedi cosa pensa del mondo, lui, Joe Shrewsbury, front man e una delle due chitarre dei 65Dot, risponde “The world is over!”. Quindi cosa aspettarsi da un gruppo del genere? Stravaganza e violenza musicale.

Subito notati dall’eclettico Robert Smith e quindi ingaggiati come gruppo spalla dei Cure nel 2005, si erano presentati al mondo con delle composizioni post rock e math rock che difficilmente comprendevano un uso dei sintetizzatori così frequente, anche se ascoltando i primi album si poteva presagire quella che sarebbe stata l’evoluzione elettronica di “We were exploding anyway”, il penultimo album pubblicato nel 2010 dalla band originaria di Sheffield. Dall’uscita di quel disco, i 65Dot si sono immersi nell’elettronica miscelando più stili, dalla dance, alla drum’n’bass, al noise fino a rasentare l’hardcore (grazie alle progressioni ritmiche del batterista), seppur mantenendo il supporto “analogico” degli strumenti dei primi dischi.

E infatti, parlando con Shrewsbury, si capisce come la sua nostalgia per il graffiante noise rock degli anni Novanta (vedi Jesus Lizard) sia il perno delle composizioni di questa band che introducendo il fattore electro è riuscita a dare forma a un progetto acclamato dalla critica underground di tutto il mondo.

Sperimentare facendo convergere più generi in un unica direzione, e anche più strumenti, è questa la chiave d’accesso. Infatti ieri il placo del Circolo era cospicuamente invaso da pedaliere, sintetizzatori e percussioni. Joe Sherwsbury alla chitarra e tastiera collegata al synth, Paul Wolinski, l’altra chitarra spesso chino sulla Doepfer Lmk 4+ con vari synth annessi, Simon Wright al basso alternato al pad controller MPD 24 e a due timpani, e Rob Jones alla batteria e altre percussioni.

Un esecuzione “multitask”, con il bassista con una mano sull’ultima corda del basso e l’altra sul pad, Wolinski, che di recente ha pubblicato un album da solista, “Labyrinth”, prettamente elettronico, con la chitarra il più delle volte girata sulla schiena e gli occhi chiusi per perdersi nel digitale delle frequenze del synth, il batterista, scalzo, che dopo aver sfidato le leggi dell’anatomia muscolare con progressioni ritmiche, esce dal buio in cui son soliti suonare i batteristi, e si mette ai due tom collegati forse a un campionatore. Il risultato? Gente che poga inebriata dall’energia dei quattro giovani artisti altrettanto coinvolti nella propria musica.

Poi, improvvisamente tutto si calma. Armonicamente si torna alla melodia più placida delle chitarre che dà finalmente tregua al batterista. Si passa rapidamente dal ritmo frenetico da apocalisse ad atmosfere alienanti, come se il messaggio dovesse essere una sorta di invito alla rinuncia, dinnanzi a un mondo così opprimente e ormai talmente corrotto da annientare l’intraprendenza di chi cerca di resistere.
Joe Sherwsbury ne è convinto, “non c’è più nulla da fare”. E quindi perché suona? “Cos’altro potrei fare?! – risponde sorridente – Suono da quando ero piccolo. Purtroppo si arriverebbe a un cambiamento se solo i politici ascoltassero il malessere globale di chi abita il mondo, ma questo, come possiamo constatare, è impossibile”.

Le teorie sovversive del gruppo sono celate nel nome della band. I 65 giorni di staticità sono parte di quel periodo in cui la Cia, nel 1954, organizzò assieme ai membri dell’élite centroamericana, un golpe al fine di rovesciare il governo del Guatemala retto da J. A. Guzmàn, il quale voleva nazionalizzare le principali infrastrutture del Paese centroamericano, portando così scompiglio nell’ordine dei capitali dei grandi magnate dell’economia statunitense. Il colpo di stato fu attuabile grazie a una massiccia propaganda, strutturata sulla combinazione mass media-mondo politico, e alla pressione politica internazionale che boicottava l’economia guatemalteca.

Ma non facciamocela prendere a male, “Ascoltiamo buona musica”, come suggerisce Joe.

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