Le parole sono importanti, gridava Nanni Moretti in uno spezzone di “Palombella rossa”. Noi sembriamo averlo dimenticato, visto che il dibattito politico, a tutti i livelli, è appestato da frasi fatte ed espressioni ambigue o prive di senso.
La classifica dei termini usati senza criterio è dominata dal “liberismo”: tutti parlano di liberismo, chi per lodarlo, chi per demonizzarlo, chi per criticarlo, ma in pochi sembrano avere un’idea precisa di cosa significhi.
Il punto è che la parola NON ha un significato preciso, è vuota, inconsistente da un punto di vista tecnico, estranea alla tradizione lessicale del pensiero economico anglo-sassone.
L’origine del vocabolo infatti è tutta italiana: fu diffuso a livello internazionale da Giovanni Sartori, che a sua volta la prese da Benedetto Croce, per distinguere il liberalismo sociale dal liberalismo classico.
La voce corrispondente della Wikipedia inglese recita:
Liberism (derived from the Italian term liberismo) is a term for the economic doctrine of laissez-faire capitalism first used by the philosopher Benedetto Croce, and popularized in English by the Italian-American political scientist Giovanni Sartori.
Sartori imported the term from Italian in order to distinguish between social liberalism, which is generally considered a political ideology often advocating extensive government intervention in the economy, and those liberal theories of economics which propose to virtually eliminate such intervention. In informal usage, liberism overlaps with other concepts such as free trade, neoliberalism, right-libertarianism, the American concept of libertarianism, and the French notion of laissez-faire.
Sartori quando parla di economia prende delle cantonate imbarazzanti, è risaputo: anche in questo caso ha fatto più danni che altro.
Obbiettivo del politologo italiano era separare agevolmente nel dibattito corrente chi predica l’opportunità dell’intervento dello Stato in alcuni settori dell’economia e chi crede che lo Stato debba astenersi da qualsiasi ingerenza. Il problema è che Sartori pretese di risolvere un problema che non è mai esistito e sostituì “liberismo” a “liberalismo economico”, un’espressione di certo più articolata ma che svolgeva egregiamente il proprio compito.
Il risultato è che oggi liberismo vuol dire tutto e niente: secondo alcuni è la posizione di chi ritiene che lo Stato non debba intervenire nell’economia, secondo altri è liberista chi crede che lo Stato debba garantire l’esistenza di mercati liberi e concorrenziali. Meglio dunque tornare alle origini e parlare di liberalismo economico, così descritto sempre da Wikipedia:
Economic liberalism is the ideological belief in organizing the economy on individualist lines, such that the greatest possible number of economic decisions are made by private individuals and not by collective institutions.[1] It includes a spectrum of different economic policies, but it is always based on strong support for a market economy and private property in the means of production. Although economic liberalism can also be supportive of government regulation to a certain degree, it tends to oppose government intervention in the free market when it inhibits free trade and open competition. However, economic liberalism may accept government intervention in order to remove private monopoly, as this is considered to limit the decision power of some individuals (most often the poor). Economic liberalism emphasizes that individuals should make their own choices with their money, so long as it does not infringe on the liberty of others.
Si spiega, qui sopra, che il liberalismo economico “può accettare l’intervento governativo volto alla disgregazione di un monopolio privato, dal momento che questo limita la libertà di scelta degli individui”. Un liberale economico è dunque chi pensa che debba essere garantito il diritto degli individui di scegliere cosa acquistare, quanto acquistare e da chi acquistare.
Questa definizione cozza fastidiosamente con la realizzazione storica del liberalismo nel corso del XIX secolo, laddove i governi cosiddetti “liberali” si sono limitati a non intervenire in alcun modo nell’economia, senza garantire la concorrenzialità del mercato.
Va fatto notare, in questa sede, che mercato non regolato e mercato concorrenziale sono due cose diverse. Il modello concorrenziale si basa su alcune assunzioni: informazione perfetta e impossibilità per il singolo agente economico di influire sul prezzo, tra quelle più importanti. Spesso queste assunzioni nella realtà non sono verificate e quindi senza l’intervento regolatorio dello Stato il mercato non massimizza il benessere generale ma fa gli interessi di determinati gruppi sociali.
Nell’Inghilterra dell’Ottocento le condizioni sociali in cui il capitalismo iniziò ad operare erano spaventosamente diverse da quelle proprie del modello concorrenziale: il potere economico era concentrato nelle mani di pochi privilegiati, che detenevano tutte le informazioni su ogni caratteristica dei beni prodotti. Il popolo non aveva ancora il diritto di partecipare alla vita politica proprio perché era privo di qualsiasi potere economico.
Di conseguenza il potere politico per tutto il XIX secolo fu detenuto dalle classi dominanti, proprietari terrieri e capitalisti. I due gruppi facevano riferimento rispettivamente a Tories e Whigs, che poi prenderanno i nomi di Partito Conservatore e Partito Liberale), perché i loro interessi erano contrapposti: l’aristocrazia terriera voleva proteggere la propria rendita dalla concorrenza dei prodotti agricoli stranieri e voleva rallentare l’inevitabile declino cui era condannata, i capitalisti volevano che il loro crescente ruolo economico ottenesse un riconoscimento politico.
Gli stessi capitalisti, però, erano liberali solo “a metà”, nel senso che erano contrari ad ogni intervento dello Stato nell’economia, anche a quei provvedimenti che sarebbero stati necessari per rendere il mercato concorrenziale. Perché? Perché tutti i grandi capitalisti erano monopolisti e quindi un’apertura del mercato li avrebbe seriamente danneggiati. Da notare, tuttavia, che i capitalisti-politici non si fecero scrupoli a chiedere ed ottenere l’intervento dello Stato con la diffusione del sistema brevettuale, che proteggeva i loro prodotti dalla concorrenza.
Possiamo quindi dire il liberalismo ottocentesco, in Inghilterra come nell’Europa continentale, non fu vero “liberalismo economico”, fu semplicemente l’espressione degli interessi della classe dominante. Ma nel corso del Novecento il tema dell’effettiva concorrenzialità dei mercati assunse l’importanza che merita: conseguenza pratica di questa crescente consapevolezza fu l’istituzione in molti paesi di un’autorità antitrust.
La vera contrapposizione, quindi, è tra “economic liberalism” e “social liberalism”. Il liberalismo sociale altro non è che il liberalismo economico alla luce degli sviluppi teorico-empirici più recenti, secondo i quali l’intervento dello Stato in alcuni settori, come sanità ed assicurazione, è dovuto alle asimmetrie informative che li caratterizzano e che rendono impossibile l’esistenza di un mercato concorrenziale senza correttivi esterni.
Il liberismo, che teoricamente dovrebbe definire il liberalismo economico, assume un senso ancora più incerto dopo lo stupro che ha subito in questi anni da politici, politicanti ed ignorati di vario genere: Vendola che accusa Berlusconi di essere liberista (che è un po’ come accusare un leone di essere vegetariano), Fassina e Orfini che lanciano strali contro il neo-liberismo e la finanza globale, Renzi che dice che il liberismo è di sinistra.
Usiamo termini più corretti, lo chiedo a tutti coloro che hanno a cuore la qualità e la concretezza del dibattito: parliamo di concorrenza, parliamo di sanità ed istruzione pubbliche o private, parliamo di sistema assistenziale. Ma mettiamo in soffitta il liberismo, è una parola utile solo a chi vuole confondere le acque.