#InnovazioniCaso FIAT, Fondi pubblici e innovazione culturale

Il caso FIAT in discussione in queste settimane mette in evidenza un tema centrale per il nostro sviluppo economico. Il tema è il sostegno alle imprese tramite il sostegno da parte dei soldi pubbli...

Il caso FIAT in discussione in queste settimane mette in evidenza un tema centrale per il nostro sviluppo economico. Il tema è il sostegno alle imprese tramite il sostegno da parte dei soldi pubblici. E’ un tema di innovazione culturale urgente.

Il nostro paese ogni anno paga circa 40 Miliardi di euro per sostenere le imprese attraverso una pluralità di strumenti, questa cifra imponente dovrebbe trasformarsi in crescita economica e lavoro e invece accade proprio il contrario. Stiamo sostenendo le imprese da molti anni nei settori più diversi eppure spesso non abbiamo grandi risultati o abbiamo risultati paradossali come quello di Almaviva che dichiara crisi a Roma chiedendo la cassa integrazione e mobilità e poi apre in Calabria con gli incentivi regionali.

I dati della Cgia di Mestre, che ha analizzato i fondi pubblici dati alla FIAT, ha notato come siano stati dati circa 7,6 miliardi e la FIAT ne abbia investiti circa 6. Mi sarei aspettato il contrario come minimo.

Molte aziende, in particolari multinazionali, ormai vanno di paese in paese chiedendo fondi e finanziamenti o approfittando di vantaggi fiscali per insediare le proprie imprese. Incentivi e fondi che hanno come obiettivo industrializzare e invece finiscono solo per diventare una specie di “vitalizio” all’impresa. Quando l’incentivo finisce l’ipresa chiude e va da un’altra parte. Se qualcuno prova a chiedere la risposta è che è colpa del “mercato” e non ci si può far niente.

La parola “mercato” ha ormai raggiunto un significato così sinistro, a dispetto delle sue origini, che uno si chiede come mai l’umanità sia in grado di combattere e sconfiggere pericolose malattie o catastrofi naturali e manco si pone il problema di combattere il “mercato” che spesso provoca così tante sofferenze in giro per il mondo. Si potrà trovare una medicina a questa terribile malattia!

Il problema della gestione dei fondi pubblici lo troviamo in molte situazioni, l’ALCOA e il sulcis sono un altro esempio.

Se si fosse elargito un contributo ai lavoratori aiutandoli ad aprire una loro impresa forse avremmo ben altri risultati.

Questo pone due questioni fondamentali, la prima è rivolta a comprendere il valore della crescita e del territorio mentre la seconda è rivolta al governo del finanziamento pubblico.

Per quanto riguarda la prima questione essa merita una riflessione a sé in un futuro post. Possiamo tuttavia notare come nei territori che hanno una vocazione imprenditoriali, capitale sociale e una serie di altri fattori si sviluppa un tessuto economico virtuooso nel quale la forza lavoro e l’imprenditore si integrano a costruire aziende in grado di competere e investire. Se vediamo il caso dell’Emilia e del terremoto possiamo notare come un tessuto imprenditoriale non ha aspettato i contributi pubblici per cercare di rialzarsi (speriamo che arrivino subito per aiutare a reuperare in pieno la situazione). Il territorio emiliano è pieno di imprese che lavorano a livello globale e pur sapendo che la forza competitiva è data anche dalle situazioni di contorno in termini di forza lavoro, know how, ecc.

Per quanto riguarda la questione dei fondi pubblici è ormai evidente che è necessario accompagnare l’elargizione di fondi pubblici a condizione che la collettività, che ce li mette, sia coinvolta direttamente nella loro gestione vigilando che siano spesi bene e per gli scopi.

Possiamo accettare che la FIAT faccia uso di cassa integrazione ogni volta che ha dei rallentamenti produttivi dovuti al cambio di modello o alla sua strategia di non far uscire modelli competitivi? Le altre case automobilistiche programmano i rallentamenti produttivi e li assorbono negli utili dei modelli in vendita e non li caricano sullo stato.

Possiamo allora immaginare che i finanziamenti alle imprese, gli incentivi, gli sgravi siano condizionati dal monitoraggio continuo della contabilità e dal coinvolgimento diretto dello stato nelle decisioni su come spendere il denaro. Si potrebbero inserire degli esperti della guardia di finanza nei consigli di amministrazione, o esperti qualificati (evitando di creare il circolo chiuso e la casta di professionisti che vengono pagati dallo stato per fare i propri interessi come nel caso di molti curatori fallimentari), o funzionari pubblici che rispondano a regole stringenti sul loro operato. La Crysler ha nel suo CdA sia rappresentati del governo USA che ci ha messo i soldi ma anche i sindacati dei lavoratori, la proprietà non è l’unico stakeholder dell’azienda.

L’idea che il proprietario dell’azienda, quando questa assume un ruolo rilevante per l’economia nazionale, possa decidere di questa come crede è una idea che non regge. Troppo spesso gli eredi si sono dimostrati incapaci di gestire ciò che i padri hanno saputo fare, ormai dovrebbe essere chiaro che la capacità non si trasmette per eredità. Forse dovremmo cominciare a pensare che l’impresa deve coinvolgere sia la collettività sia chi vi lavora nel decidere le strategie e valutare gli andamenti. Troppi sono stati i casi di proprietari che hanno lasciato affondare l’azienda per preservare il loro guadagno o espropriare l’azienda per investie in rendita.

Ricordiamo il caso Eutelia o il caso Parmalat come esempi di malagestione, ma l’Italia è piena di casi nei quali la proprietà costruisce imperi che non sa gestire. Non possiamo più permetterci questa situazione.

Forse oggi pomeriggio, nell’incontro tra Marchionne e il governo, quest’ultimo dovrebbe chiedere di entrare nel CdA, guardare dentro ai conti ed essere parte in causa dell strategie industriali. Questo deve essere fatto anche con la cassa integrazione, affinché non possa verificarsi la situazione nella quale i profitti che vengono fatti da una parte rimangano alla proprietà e le situazioni di perdita diventino problema della finanza pubblica.

L’epoca del “mercato” sempre evocato ma spesso finanziato dagli incentivi pubblici non può più continuare, ricorda un proverbio che mi raccontavano da piccolo “quello che è mio è mio, quello che è tuo è puro lo mio”. Abbiamo bisogno di un mercato vero nel quale le imprese facciano gli interessi non solo degli azionisti (anche perché, tolti i delinquenti, sono interessi solidali con chi vi lavora) e se non ci sono famiglie imprenditoriali in grado di cimentarsi con questo cambiamento deve poter intervenire direttamente la mano pubblica mettendo in le aziende sotto la guida di manager brillanti che certo non mancano.

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