Diario americanoIl linguaggio di Obama: dire “Yes, I did” è più difficile che urlare “yes, We Can”

   Una nota in margine alla Convention democratica di Charlotte. Giovedì sera, al termine del discorso con cui Barack Obama ha accettato la candidatura alla Casa Bianca, ho alzato lo sguardo e osse...

Una nota in margine alla Convention democratica di Charlotte. Giovedì sera, al termine del discorso con cui Barack Obama ha accettato la candidatura alla Casa Bianca, ho alzato lo sguardo e osservato alcuni giornalisti che mi stavano vicini in sala stampa. Il pensiero era lo stesso, ma ognuno aspettava che fosse l’altro a esprimerlo.
Il pensiero era sostanzialmente questo: delusione per l’intervento di Obama; scarsa capacità del presidente di convincere, emozionare, far pensare. Alla fine la cosa è stata espressa, tra noi e da tanti altri, e l’idea che Obama abbia perso un’occasione importante, giovedì sera, appartiene ormai alla discussione comune.
Ho provato da allora a pensare cosa non andasse, nelle parole e nel tono scelto da Obama. Sicuramente non era facile venire la sera dopo Bill Clinton, che alla Convention ha fatto un discorso indimenticabile, forse il più alto della sua storia politica, retoricamente perfetto, capace di intrecciare politica ed emozioni, di parlare a moderati e progressisti, di catturare persino le lodi dei conservatori di Fox News che per anni l’hanno castigato. Ma non era nemmeno facile venire dopo Julian Castro, sindaco di San Antonio e uno dei giovani democratici in ascesa; dopo Michelle Obama, capace di parlare di politica snocciolando una serie di semplici aneddoti su carattere e privato del marito; e ancora dopo il pledge of allegiance recitato da Gabrielle Giffords, la deputata vittima delle pallottole di un pazzo; dopo la scatenata Jennifer Granholm, ex-governatrice del Michigan e sostenitrice dei lavoratori dell’industria automobilistica; e persino dopo le stoccate rifilate ai repubblicani da parte di due vecchi leoni della politica come John Kerry e Joe Biden.

Non era facile per Barack Obama venire dopo tutto questo e chiudere con qualcosa di più alto, nuovo, sorprendente. In realtà, poi, nel discorso, il presidente ha fatto quello che doveva fare e che tutti aspettavamo. Ha rivendicato i meriti della sua amministrazione. Ha messo in guardia da quello che succederebbe nel caso i repubblicani dovessero riconquistare la Casa Bianca. Ha illustrato con numeri e dati quello che pensa di fare, se rieletto.
Da cosa dipende allora il sentimento di sconcerto, di delusione, di scarsa presa del discorso di Obama? Ci ho pensato per un po’ e mi sono dato soprattutto una risposta. Obama non è – per tradizione, cultura personale, indole – un politico a suo agio nel ruolo dell’incumbent, del candidato in carica che difende le proprie politiche (soprattutto nel caso di politiche come quelle economiche di questa amministrazione, che non si sono rivelate particolarmente efficaci). Obama non si trova a suo agio a parlare alla testa e alle tasche degli americani. Obama non riesce a essere davvero convincente quando si tratta di condividere paure e aspirazioni di una classe media preoccupata più del proprio benessere che di ideali generali.
Obama è un costituzionalista di Columbia e Harvard, un politico progressista che ha portato la sua cultura e formazione d’élite nelle aree più povere e “di sinistra” di Chicago, prima come social worker e poi come politico. Il linguaggio che parlava a Chicago era un linguaggio radicale, in cui la tensione al cambiamento delle condizioni di vita di quella gente si fondeva con gli impulsi alla palingenesi sociale maturati nella cultura delle chiese e università.

Obama ha usato quel linguaggio, sia pure moderato e depurato, nella campagna 2008, quando le parole d’ordine erano quelle della palingenesi sociale, “hope” e “change” appunto, e quando il candidato democratico era il nuovo, l’oppositore, colui che non doveva nemmeno curarsi troppo di proposte e politiche concrete perché tanto bastava l’appello alla trasformazione (e infatti chi di noi seguì quella campagna, ricorda ancora la fatica a riassumere nello spazio di un articolo una serie di semplici punti programmatici. Il candidato, per l’appunto, si preoccupava di “sogni” e non di banale politica).
Quel linguaggio andava bene nel 2008, ma non va più bene nel 2012. La cosa è risultata tanto più chiara ascoltando Bill Clinton, un politico progressista che si è fatto le ossa e ha dovuto lavorare in uno Stato tendenzialmente conservatore come l’Arkansas. Tanto Bill Clinton appariva naturale, a proprio agio, ora ironico ora preoccupato, nel rivolgersi all’americano medio travolto dalla crisi economica, tanto Obama è sembrato legato, non ispirato, fuori fase.

Ciò ovviamente non toglie che il candidato democratico sia, al momento, il favorito nella corsa alla Casa Bianca. Obama ha comunque, nei confronti di Mitt Romney, maggiori doti di comunicazione e una politica francamente più credibile a vantaggio della classe media. Ma l’impressione è che, se vuole mantenere il vantaggio, debba ripensare il proprio linguaggio, trovare una chiave che non sia la trasfigurazione messianica di quattro anni fa ma nemmeno l’imbarazzata difesa di sé e della propria amministrazione che ha trionfato in queste settimane.
Il “sogno” è stato travolto dalla realtà – come peraltro accade sempre -. “Forward”, avanti, la parola scelta dai democratici per questa campagna, non dice molto e non convincerà gli americani se non si sostanzia di cose e prospettive. E questa è, senza dubbio, la parte più difficile.

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