Foto scattata con Instagram da Bruce Wayne – fotografo non professionista
Qualche tempo fa James Estrin, giornalista e fotografo del New York Times che ho imparato a stimare per il suo lavoro negli anni, ha posto la questione nel suo NYT blog, “Lens”, di quale effetto il moderno “tsunami” della fotografia vernacolare potrà avere sulla fotografia professionale.
Estrin parla di miliardi di telefonini muniti di fotocamera che fotografano qualsiasi cosa: cibo, bimbi, cani, tramonti, che registrano innumerevoli azioni come se avessero tutte pari importanza.
Questa affermazione di Estrin mi ricorda il pensiero di Susan Sontag che riguardo alla fotografia parla di voyeurismo livellante che fa apparire identici eventi tragici e situazioni scanzonate, siamo negli anni ’70.
Estrin prosegue il suo pezzo constatando che ogni giorno solo su Facebook vengono caricate più di 380 milioni di fotografie, e Instagram sta crescendo esponenzialmente con 4 miliardi di foto uploadate al luglio 2012.
Foto scattata con Instagram – fotografo non professionista
Insomma oggi dopotutto basta avere un telefono per essere dei – potenziali – fotografi.
Sempre per Estrin, “La fotografia non è più prevalentemente un modo di conservare un ricordo prezioso o imparare di luoghi e gente che altrimenti ci sarebbe impossibile incontrare, ma piuttosto una merce di scambio, spesso di cattivo gusto, nelle interazioni sociali e un modo per spiare ancora più da vicino negli ombelichi degli altri”.
Ma il punto è: in che modo tutto ciò si può davvero paragonare alla fotografia “seria”? E come la influenza?
Estrin fa due ipotesi, nella prima lo sviluppo di questa pratica dovrebbe allargare il potenziale pubblico capace di apprezzare la fotografia documentaria e di reportage perché più abituato a pensare visivamente.
La seconda ipotesi invece prevede che il bombardamento di immagini cui siamo sottoposti renda impossibile che una fotografia possa emergere e distinguersi, perché se a tutti piace tutto, nessuna fotografia è meglio di un’altra.
Estrin conclude il suo articolo con la seguente domanda “come può la comunità dei fotografi professionisti sfruttare questa esplosione di energia visuale per ampliare il proprio pubblico?”
Foto scattata con Instagram da Justin Bieber – fotografo non professionista
La mia opinione è che la questione sia molto più complessa di così e che gli scenari futuri possibili sono molti di più.
Ho già citato Susan Sontag prima ma ho bisogno ancora di lei perché questo tipo di ansie e preoccupazioni sa tanto di déjà vu, (a questo proposito vi consiglio la lettura del blog di riposta ad Estrin di John Edwin Mason), si tratta di ansie che si ripresentano ciclicamente, soprattutto ogni qualvolta nuove tecnologie invadono il mercato, e questo vale per tutto, non solo la fotografia.
Sontag rispetto al bombardamento di immagini cui siamo sottoposti parla – negli anni ’70! – di effetto anestetizzante. Quando si è ripetutamente esposti alle immagini, queste diventerebbero meno reali.
Divoriamo immagini in una sorta di bulimico consumismo estetico per cui come probabilmente direbbe McLuhan (anni ’60!) il contenuto, il messaggio dell’immagine perde qualsiasi importanza identificandosi con il medium stesso: il medium è il messaggio.
Foto scattata con Instagram da Ed Kashi – fotografo professionista
Come non trovarsi d’accordo con Sontag e McLuhan?
Cosa deve avere un’immagine oggi per attrarre la nostra attenzione?
Cosa ci spinge a soffermarci su un’immagine piuttosto che un’altra?
Alla fine di una giornata cosa ricordiamo di quello che abbiamo visto?
Foto scattata con Instagram da Matt Eich – fotografo professionista
Questa però non è una questione che riguarda solo le immagini, ma qualsiasi forma di linguaggio, qualsiasi “cosa” quindi che rimandi a qualcos’altro, che abbia la funzione di indice, segno, come le parole.
Quante parole leggiamo tutti i giorni fra articoli, agenzie, blog, post, tweet… Cosa resta? Cosa ricordiamo? Cosa attira la nostra attenzione?
Pensavo proprio in questi giorni, soprattutto dopo aver visto l’orrida Nicole Minetti sfilare in passerella per una marca di costumi, che esiste una parabola del cattivo gusto, per cui sorpassata una certa soglia di comportamenti trash, aberranti, scellerati, e a volte banditeschi, non esiste più nessuna forma di censura sociale, l’importante dopotutto è che se ne parli, la logica del “like” travolge tutto, e più il trashone di turno ha una solida base di “followers”, più nessuno avrà il coraggio di prenderne le distanze pubblicamente.
All’inizio certi personaggi si seguono magari per farci sopra dell’ironia, senza rendersi conto che così si dà da mangiare al mostro che cresce e, come i dinosauri di Jurassic Park, diventa troppo grosso per essere domato, come certe banche “too big to fail”.
Foto scattata con Instagram da Richard Koci Hernandez – fotografo professionista
Tornando a noi, la democratizzazione della fotografia ne ha fatto sempre più un linguaggio, ormai fotografare e trasmettere una fotografia in diretta è diventato facile come parlare.
Si utilizzano quindi le immagini come si fa da tempo con le parole a volte per prendere appunti, altre per attirare l’attenzione, per esprimere pensieri profondi o anche solo dire cazzate, insomma per mille ragioni e destinazioni diverse da quelle che possiamo considerare La Fotografia con la F maiuscola o la Scrittura con la S maiuscola.
Credo che sia l’intenzione quella che cambia tutto, e anche e soprattutto la mano di chi fotografa, come di chi scrive d’altronde.
L’altro giorno ho twittato una frase di Ansel Adams “I trust that the creative eye will continue to function, whatever technological innovations may develop”, sante parole quelle di Adams, morto prima che Steve Jobs compisse 30 anni.
Dopotutto la tecnologia è – al momento – ancora al servizio di un occhio umano, io non sono una grande fan di Instagram o Hipstamatic, è vero però che anche queste applicazioni possono dare risultati interessanti nelle mani, e negli occhi giusti, mi vengono in mente Richard Koci Hernandez, o Benjamin Lowy e ancora John Stanmeyer e altri Instagram lovers fra cui Matt Eich e Ed Kashi.
Foto scattata con Instagram da Richard Koci Hernandez – fotografo professionista
Insomma non è la teconologia il male assoluto ma l’uso che se ne fa.
I vantaggi di poter utilizzare un telefonino per scattare delle fotografie sono facilmente riconoscibili: è così facile che chiunque può usarlo e possiamo avere qualche punto di vista anche da posti difficilmente raggiungibili dai reporter professionisti mentre per gli stessi fotografi professionisti in certe situazioni un telefono attira sicuramente meno l’attenzione di una macchina fotografica, con ovvie conseguenze.
Foto scattata con una Holga, lente di plastica da John Stanmeyer, parte del progetto “Island of the Spirits”, Bali, 2010 – fotografo professionista
C’è da dire che per un discreto numero di gente con occhio fotografico esistono miliardi di persone che oltre a non avere senso dell’immagine non hanno neanche il minimo gusto, mi chiedo quindi se l’invasione di brutte immagini che ogni giorno, ogni momento aggredisce il nostro campo visuale più o meno consapevolmente possa in qualche modo corrompere la nostra capacità di discernimento, facendo passare per decenti se non addirittura belle delle fotografie orrende, anche questa è una possibilità perché in fondo tutte le nostre valutazioni sono il frutto della nostra memoria storica conscia e inconscia. (Una parabola discendente del gusto post democratizzazione d’altronde l’abbiamo già sperimentata in molti altri settori, fra cui la moda).
Un altro possibile outcome del flusso di immagini è che si perda interesse per certa fotografia artistica modalità “snapshot”, esplosiva negli anni ’80, deflagrata oggi su tutti i livelli.
Penso che il futuro della fotografia professionale soprattutto di reportage sia nel raccontare sempre più delle storie, dare delle opinioni, esplorare gli aspetti collaterali, è un po’ come quello che dovrebbe accadere ai quotidiani cartacei, inutile stare sulla notizia spot, per quella c’è ormai il web, bisogna approfondire, dare opinioni.
Foto scattata con Instagram da Benjamin Lowy – parte del progetto iLibya, 2011 – fotografo professionista
Mentre il ruolo di noi professionisti della stampa dovrebbe essere quello di dare degli standard, non scendere mai sotto un certo livello, se qualcuno sfoglia Vogue deve pretendere che le fotografie in esso pubblicate siano di qualità, è quello che dico sempre a chi si lamenta perché vede le proprie foto scartate nel nostro canale Photo Vogue di Vogue.it.
Se Photo Vogue fosse una realtà democratica tipo Flickr o Facebook, non sarebbe altrettanto prestigioso. Il prestigio si costruisce nel tempo con le scelte giuste di occhi esperti, non abbassando mai il livello, sapendo cosa scartare e cosa pubblicare, è cosi che i giornali dovrebbero essere: qualcosa a cui il pubblico deve guardare come esempio, dei certificatori di qualità.
Infine, scomodando ancora McLuhan, e le recenti scoperte di neuroscienze sulla plasticità del cervello, è bene ricordare che “in una società la struttura mentale degli individui e la cultura sono influenzate dal tipo di tecnologia di cui tale società dispone”; che cosa sta cambiando nella nostra mente? Pensiamo solo pensieri di massimo 140 caratteri? Come si sta modificando la nostra vista?