La bibliofilia è passione esclusiva (anche in senso economico), con i suoi bravi e numerosi cultori nel nostro paese (tra i più noti Eco, che alle Serendipities di cui qui tratto ha anche intitolato un libro, Diliberto e, ahinoi!, Dell’Utri), e spesso consente curiosissime scoperte. Una di esse ci fa toccare con mano il provincialismo inguaribile della nostra cultura. Intendiamoci: la cultura italiana è spesso provinciale per eccesso di esterofilia (difetto certo preferibile all’opposto sciovinismo), quindi, paradossalmente, per il sacrosanto rifiuto di chiudersi in se stessa. È sempre stato così.
Sono gli imperi, che si sentono al centro del mondo, a essere, senza eccezione, provinciali; se si guarda al panorama attuale, le cose non sono cambiate. Quanto a noi, un conto è essere attenti a ciò che viene prodotto fuori dai nostri confini (atteggiamento lodevole, che fa però talvolta dell’Italia la troppo generosa terra di Bengodi del tradurre), un altro non sapere che cosa nei secoli la nostra letteratura abbia prodotto (e spesso celato a se stessa). Un caso è appunto legato all’uso del termine Serendipity, spesso usato, soprattutto nel campo della storia della scienza, a designare scoperte nate casualmente, dalla costola di altre indagini.
La spiegazione offerta dall’Oxford English Dictionary al termine in questione recita: «formed by Horace Walpole upon the title of the fairy-tale The Three Princes of Serendip, the heroes of which “were always making discoveries, by accidents and sagacity, of things they were not in quest of”. The faculty of making happy and unexpected discoveries by accident» (“coniato da H. Walpole dal titolo della fiaba I tre principi di Serendip, i cui eroi ‘facevano continue scoperte, grazie al caso e alla sagacia, di cose di cui non erano in cerca’. L’attitudine a fare casualmente scoperte felici e inattese”). L’origine del derivato italiano serendipità, mai entrato nell’uso, viene così registrato dal Grande Dizionario della Lingua Italiana della UTET: «dall’ingl. Serendipity, voce coniata nel 1754 da H. Walpole nel suo romanzo Three Princes of Serendip (dove narra la storia di tre giovani che hanno il dono naturale di scoprire cose di valore senza cercarle)».
Dal che si deduce che i collaboratori del Grande Dizionario non hanno letto la definizione del termine inglese nel più accreditato dizionario di quella lingua, o non ne hanno capito il senso (Walpole non ha mai scritto The Three Princes, come una lettura attenta del passo su riportato avrebbe chiaramente fatto capire). Anzi, probabilmente quei collaboratori neppure conoscono il repertorio di testi italiani da cui il loro Grande Dizionario (opera, beninteso, insostituibile) attinge il materiale lessicale. Infatti il Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo (Serendippo è forma italiana di Sarandib, denominazione persiana dell’attuale Sri Lanka), opera di un misterioso armeno residente a Venezia, e là pubblicato nel 1557, è inserito nell’elenco dei testi spogliati (e citazioni da esso compaiono nello stesso Grande Dizionario). La vicenda si incentra per l’appunto, oltre che sulla casualità delle scoperte, sulla sbalorditiva capacità abduttiva (quella cioè che procede a ritroso dagli effetti alle cause) di cui i tre giovani protagonisti del libro fanno mostra. Il testo (di cui esiste una recente edizione, pubblicata nel 2000) è perciò tra i primi esempî del detective novel, il che spiega il suo enorme successo (con propaggini fino nel Novecento inoltrato) nel mondo anglofono, dove si contano i maggiori autori ed esperti del genere. I Three Princes non sono in effetti che la rimaneggiata traduzione inglese del Peregrinaggio. Traduzione che non è la prima, dato che una versione tedesca è già del 1583 (né rimane isolata); seguono traduzioni in francese, in inglese, ancora in tedesco, in danese, in olandese; tutto ciò senza contare le numerose riattualizzazioni, a cominciare dallo Zadig di Voltaire. Insomma, non solo il Peregrinaggio è uno dei libri italiani più conosciuti fuori dai nostri confini, ma esso va certo annoverato tra i progenitori del moderno romanzo poliziesco.
Un testo del genere (che, beninteso, funge qui solo da spia di fatti di più vasta scala), avesse trovato i natali in paesi con altra politica culturale (la Francia, per fare un esempio scelto a ragion veduta) avrebbe raggiunto fama enorme. In Italia ci si rifiuta di fare i conti con il secolare lavoro di un canone a dominante classicistica (tuttora filtrato da ingessati custodi della tradizione), e ci si ostina a non capire che dalla letteratura di intrattenimento e dalle scritture non letterarie è nato il romanzo moderno. Il che è il colmo dello stolido provincialismo. Come volevasi dimostrare.