Marta che guardaL’intervallo, di Leonardo Di Costanzo

«È un film in napoletano stretto con i sottotitoli italiani», mi avverte la bigliettaia del cinema. «Però a chi l'ha visto è piaciuto tantissimo». In effetti eravamo in cinque in tutta la sala a go...

«È un film in napoletano stretto con i sottotitoli italiani», mi avverte la bigliettaia del cinema. «Però a chi l’ha visto è piaciuto tantissimo».
In effetti eravamo in cinque in tutta la sala a goderci questo piccolo gioiello italiano, uno di quei film che ogni tanto arrivano dal sud Italia e che ti si incagliano nel cuore e nella testa, nonostante siano produzioni piccole e indipendenti (o forse proprio per questo?).
Ambientato in un edificio abbandonato di Napoli (l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, dove Mimmo Jodice scattò storiche e meravigliose fotografie negli anni 70), L’intervallo racconta con tenerezza e poesia il nascere di un’amicizia tra due adolescenti, Veronica (Francesca Riso) e Mimmo (Alessio Gallo), entrambi rinchiusi lì dentro, lei per un motivo che si chiarirà via via, lui perché costretto dai camorristi di quartiere a farle da guardiano.
Per un’ora e mezza secca ci sono quasi sempre solo loro due a tenere la scena, in un susseguirsi di scontri, incontri, confidenze, silenzi, insulti, gentilezze che non ha mai sbavature. La sceneggiatura infatti è scritta con piena consapevolezza di che cosa significa essere napoletano da un bravo autore come Maurizio Braucci, che di marginalità a Napoli se ne intende, dallo stesso regista, Leonardo Di Costanzo, uno che finora ha girato solo documentari e si vede, e da Mariangela Barbanente. Napoli non la vedi praticamente mai in realtà, ma L’intervallo riesce lo stesso a raccontare bene la meraviglia e la tragedia che convivono in quella città (“un paradiso abitato da diavoli”). E i due ragazzi hanno un modo tutto napoletano di guardare alle loro esperienze, di confrontarsi, di avvicinarsi: così secco, così disincantato, ma anche così pungente e vitale, che io, milanese quasi doc, abituata a un’atmosfera decisamente più plastificata, ne esco sempre un po’ impaurita, ma anche irrimediabilmente attratta.
I due attori, giovanissimi, sono molto bravi, lei poi non ne parliamo, perché è brava e anche bella. Di quella bellezza che le veline manco sanno che cos’è, così carnale, imperfetta, intrigante.
Detto questo, non si tratta affatto di un film consolatorio né tantomeno di una fiaba. È, al contrario, terribilmente amaro perché denuncia la nostra sconfitta, sconfitta di noi tutti, di fronte a una mentalità che ormai è l’unica possibile. In quel territorio, ma non solo, temo.
Resta da dire che la fotografia di Luca Bigazzi è bellissima nonostante il finto aspetto modesto del film: qui ogni inquadratura è studiata (do you remember Ghirri?), ogni gioco di luce e ombra è magistralmente calibrato. E quando scorrono i titoli di coda, quasi ti dispiace di dover lasciare quelle atmosfere, nonostante tutto.

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