Due articoli denunciano la difficile situazione del paese a quasi vent’anni da Dayton : il paese creato con gli accordi di pace “è un fallimento” da addebitare agli sbagli della Comunità Internazionale. E mentre i Bosniaci si preparano alle elezioni amministrative in ottobre, la retorica di guerra ricomincia a guadagnare spazio nei media nazionali.
Due articoli
non proprio teneri sono apparsi nelle scorse settimane nei media internazionali, d’improvviso apparentemente sensibili agli eventi in Bosnia Erzegovina. Il primo, a firma John R. Schindler, è apparso su “The National Interest”, recando un titolo di per sé significativo: “Forgotten failure in Bosnia”, il fallimento dimenticato in Bosnia. Schindler, che è professore di Sicurezza Nazionale al Collegio Militare Navale degli Stati Uniti a Newport, non si nasconde dietro il proverbiale dito: “sotto quasi ogni aspetto”, denuncia, “Dayton è stato un fallimento. La riconciliazione interetnica non si è mai trasformata da promessa in realtà, e l’inimicizia tra Serbi, Croati e Musulmani è oggi altrettanto profonda che vent’anni fa: il nazionalismo si è trasmesso da una generazione a quella successiva”. Schindler si spinge fino a scrivere che la comunità internazionale “è stata troppo lenta nell’apprendere la lezione: la maggior parte dei cittadini di Bosnia Erzegovina non desidera vivere tra gente che non appartiene al proprio gruppo etnico e religioso”.
“La promessa di Dayton di ricostruire un qualche tipo di Società Civile e di economia funzionanti in Bosnia-Erzegovina è stata una delusione: […] le difficili condizioni economiche di inizio anni novanta sembrano addirittura un paradiso se confrontate alla palude di corruzione, crimine e povertà che la Bosnia è divenuta sotto la tutela della Comunità Internazionale”, continua l’articolo. Il problema è che “Dayton ha imposto al paese un modello neocoloniale, senza i vantaggi del neocolonialismo”. Insomma: gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno esercitato la propria autorità sul paese, limitandone la sovranità, ma al contempo hanno permesso alla leadership locale di consolidarsi e di rinunciare ad ogni trasformazione. La conclusione è che “l’esempio della Bosnia dovrebbe sollevare molte questioni circa la capacità dell’occidente nel promuovere il nation building in nazioni distrutte dalla guerra”.
Al pezzo di Schindler fa eco, con una singolare coincidenza di tempi, Matthew Parish sul sito di Transconflict, con un pezzo intitolato “Bosnia’s ragged demise”, la fine disastrosa della Bosnia. Parish constata che ormai la comunità internazionale non è più interessata alla situazione del paese: “imbrigliata nella crisi mediorientale, la comunità internazionale ha perso ogni interesse nei Balcani”. A causa della crisi e “grazie alla scomparsa dell’attenzione internazionale, i politici del paese possono ora cominciare a distruggere l’architettura istituzionale imposta dagli Stati Uniti con gli accordi di Dayton”. La dinamica principale attraverso cui ciò si sta realizzando è “lo sfruttamento, da parte dei Serbi, delle divisioni esistenti tra Croati e Musulmani”.
“Ogni politico Bosniaco sa benissimo che le possibilità della Bosnia di divenire membro dell’Unione Europea sono molto remote. L’eventualità di ammettere in Europa uno stato disfunzionale come quello bosniaco annullerebbe la credibilità della Commissione Europea”. “Ciononostante”, continua Parish, “nessuno ha il coraggio di ammettere che la probabilità di una Bosnia Erzegovina in Unione Europea sono pari a zero. Il paese continua a fantasticare sul fatto che l’ingresso nell’Unione risolverà la sua perpetua miseria economica. Le negoziazioni diplomatiche tra Bruxelles e Sarajevo, quindi “si risolvono a un gioco di fumo e specchi”.
Il principale responsabile dell’impasse sarebbe, ancora una volta, Milorad Dodik, il leader dell’entità serba di Bosnia-Erzegovina. “La sua agenda è di promuovere il distacco della Republika Srpska dal resto del paese, e per farlo sta cercando di annichilire il potere della Presidenza Centrale”. Questa situazione non è altro che “la logica conclusione delle premesse dell’accordo di Dayton, che attribuì un peso politico esagerato ai Serbi di Bosnia”. La conclusione di Parish è raggelante: “si è ormai formata un’opinione unanime tra commentatori e diplomatici internazionali, d’accordo nel dire che la Bosnia Erzegovina è ormai prossima ad un’inevitabile dissoluzione. Resta da capire se il fallimento dello Stato comporterà un ritorno alla violenza”.
Il ritorno di una retorica di guerra.
Ed è proprio su questo punto che per la prima volta, nel corso di anni, la retorica politica mostra i segnali di un preoccupante deterioramento. Nei giorni scorsi Milorad Dodik ha annunciato di avere “un accordo con Zlatko Lagumdžija” (attualmente Ministro degli Esteri Bosniaco, e membro del partito SDP) per la dissoluzione e la spartizione della Bosnia-Erzegovina. Un annuncio che ha provocato la durissima reazione del diretto interessato e del suo partito. Da Zenica, nel corso della manifestazione per la presentazione delle liste per le elezioni locali, l’SDP ha dichiarato che “non c’è alcuna possibilità di divisione del paese, specialmente pacifica”.
Lagumdžija ha poi personalmente ribadito che “l’ipotesi dell’esistenza di un tale accordo è assolutamente sciocca”. Ed ha contrattaccato: “la Bosnia Erzegovina non può essere dissolta pacificamente, ma solo con la violenza. Per cominciare una guerra è necessaria la presenza di qualcuno che sia così pazzo da dichiararla, per finire poi incriminato al tribunale dell’Aja. Se qualcuno tentasse di dissolvere con la violenza il paese, perderebbe sicuramente”. “In molti sono pronti a difendere il Paese, e lo difenderanno”, ha concluso il Ministro degli Esteri Bosniaco. Parole che, seppur pronunciate in un contesto di chiara campagna elettorale, segnano una netta escalation nella violenza verbale della classe politica del paese: per la prima volta, dopo parecchi anni, si torna apertamente a parlare della disintegrazione della Bosnia Erzegovina come di un’eventualità realistica.