Quella vecchia linguaccia di Oscar Wilde (il più irriverente irregolare della letteratura) spiegava così l’attrazione che sentiva da lontano e da reietto per il cattolicesimo: “La Chiesa cattolica è fatta per i santi e per i peccatori; per la gente per bene, per i benpensanti, va benissimo la confessione anglicana, che oltretutto è anche religione di Stato…”.
Ecco, forse questa battuta fotografa ancora oggi il contrasto palmare ed evidente che è riemerso in occasione della morte e dei solenni funerali in Duomo del cardinale Carlo Maria Martini. Quello tra il fiume incessante di un popolo variegato, senza polemiche e senza “targhe” che sentiva l’urgenza di testimoniare un affetto, una vicinanza e una profonda ammirazione – come racconta nel suo blog Jacopo Tondelli – per il pastore che aveva segnato la storia della città e della fede e il complesso del potere mediatico che continuava a farne anche in morte il simbolo di un dissenso, la fonte di una polemica perenne verso la Chiesa, quel vescovo “all’onor del mondo”, tanto caro ai perbenisti, insomma il cappellano ideale del dominante “politically correct”.
Non era così e non è stato così : e lo ha smentito il commosso e severo pellegrinaggio dei moltissimi che gli riconoscevano di esser stati attirati e incuriositi dalla sua leadership spirituale ed umana a tentare la più scandalosa e la più inattuale delle scommesse del nostro tempo frenetico e complicato, la scommessa di Dio. Perché, nel suo modo originale e coinvolgente, Martini proponeva e ancora propone l’eternità sfrondata e immutabile della Parola, che aveva scandagliato con sapienza fino al punto da amarla e farne la sua unica ragione di vita e di ministero.
Principe della Chiesa certo scomodo e non facile, sempre segno di contraddizione e mai di acquiescenza, appariva comunque la voce alternativa, ma solo perché aveva il coraggio di non ritrarsi di fronte alle domande inedite e sconvolgenti portate dalla modernità. Nessuno ha citato nel profluvio di questi giorni l’opera a quattro mani scritta con don Verzè. Certo, sarà stato poco elegante, ma c’è anche quella, proprio sui temi della bioetica. E in tante parole e scritti a proposito ad esempio di aborto od eutanasia, Martini rispondeva sempre: “non approvo e non posso approvare, ma comprendo che nelle situazioni estreme…”. E cioè quel lasciarsi riempire fino in fondo dalle singole sofferenze umane e, senza giustificare, ascoltare e soccorrere.
In questo, la pienezza vissuta della spiritualità ignaziana. E, magari per mediocre calcolo politico, si è sempre trascurato il suo essere “gesuita fino in fondo”. La Compagnia di Gesù era la sola famiglia di Martini (e non a caso ne è l’erede universale) e l’interprete della sua vocazione, quella cioè di essere un “corpo scelto” della Chiesa chiamato a percorrere i sentieri più impervi e gli abissi più insondabili della fatica di vivere. Così suona frusta e pigra la definizione diffusa e ripetitiva di “cardinale del dialogo”: quanto piuttosto era il “cardinale dell’incontro”, dell’ascolto di chiunque e della capacità straordinaria di comunicare con l’intelligenza (e talvolta con l’ironia, se non con l’astuzia) per seminare nell’interlocutore elementi di consolazione e risvegliarne il bisogno di senso.
Nel suo lungo episcopato (e forse questo è il suo limite) capì poco, e talvolta respinse, il contado, la periferia, la provincia. Un contado che, soprattutto nei momenti di crisi, preme sulla metropoli, la innerva e la trasforma. L’Arcivescovo coltivava la convinzione che per cambiare la città (che intanto, appunto, già cambiava di suo) bastasse cambiare la Chiesa. Di qui il sogno, l’inquietudine, la critica anche feroce agli orpelli e alla fissità della pastorale. Con quell’immagine, nella sua ultima intervista, della “tanta cenere che soffoca la brace ardente”. Nella interessata e selettiva comunicazione alla moda si segnala con ammirazione l’indignazione di Martini, guardandosi bene dall’apparentarla al più forte grido di Ratzinger contro “la sporcizia nella Chiesa”. Senza cogliere , volutamente, l’essenza: quella cioè che far emergere le “piaghe della Chiesa” è parte dello strano mistero per cui questa imperfetta e incoerente istituzione è l’unica sulla terra che dura da duemila anni ed è sempre in ritardo (non di duecento ma di duemila anni) rispetto al suo fondatore.
A differenza di Ratzinger Martini non sentiva incombente il rischio contemporaneo dell’”eclissi di Dio”. E forse, con la sua fiducia si sta già rivelando più “conservatore e ortodosso” di come è stato sempre descritto. Un solo esempio: più della metà degli illustri teologi che vanno per la maggiore spera che presto saltino fuori dalle sabbie della Palestina le ossa di quel Crocefisso, così da confermare le loro elucubrazioni sulla “narrazione simbolica” della nascita del Cristianesimo. Per Martini invece era ed è tutto vero: anche nei colloqui con un laico pieno di sussiego come Eugenio Scalfari spiega con sicurezza che il centro di tutto è lo scandalo inconcepibile della Resurrezione, senza la quale – come per Paolo – la fede è insensata. E non è un caso che alla pagina sulla Resurrezione fosse aperto quel Vangelo che pesava sulla sua bara…
Come ha capito la semplicità della moltitudine di pellegrini in Duomo di queste giornate, grazie a Dio per il dono di Martini: ma Dio ci salvi dal “martinismo”…