Il mondo reale che tocca il mondo fantastico, il fiabesco che si introduce di prepotenza nella prosaica vita di tutti i giorni. Da qui parte lo spunto della nuova serie americana Once upon a time, in onda in prima serata il mercoledì su Rai 2.
A ben vedere, nulla di nuovo: da Narnia al Piccolo Principe l’idea è sempre quella di far interagire mondi diversi, spazialmente dislocati in dimensioni altre e temporalmente sfasati. L’ambizione dell’uomo di entrare in contatto con l’Altro, sia esso un extraterrestre o la fata delle fiabe di quand’eravamo piccoli, rimane uno dei cardini delle civiltà di tutto il mondo. Si potrebbe dire, persino, che senza un simile afflato non esisterebbero nemmeno le arti. Che cosa sono la pittura, la scultura, la letteratura, originariamente, se non la ricerca di rappresentare, prima di tutto, il Trascendente come idea immanente all’uomo?
Su questo hanno ragionato, e ragionato bene, due autori di Hollywood che hanno già dato prove interessanti in altre serie di successo, come Lost e Felicity. Edward Kitsis e Adam Horowitz hanno fatto tesoro delle speculazioni filosofiche maturate durante la stesura della serie sui naufraghi – pure troppe, a dir la verità, tanto che molti spettatori ad un certo punto si sono persi – e si sono rimessi all’opera su un progetto che avevano immaginato già nel lontano 2004 ma che era stato respinto da svariati produttori e definito troppo “fantastico”.
Il titolo stesso, che poi è l’incipit di ogni buona favola inglese che si rispetti (è il nostro “c’era una volta”), la dice lunga su quale sia l’ispirazione primaria di questi autori: si torna addirittura ai Grimm e a Perrault e si impasta quel materiale – ricchissimo e tutt’ora profondamente esplorabile, giacché spesso negletto in ambito accademico – con la realtà che ci circonda, con la vita quotidiana, con i Blackberry e le connessioni a Internet.
La trama di base è questa: esiste un luogo, una piccola cittadina del Maine (regione assai evocativa per gli americani, patria di streghe, fantasmi e duro puritanesimo), in cui i personaggi delle maggiori fiabe occidentali sono “intrappolati” da una maledizione a vivere una realtà prosaica e quotidiana, non ricordandosi chi sono e da dove vengono. La cittadina si chiama, non per caso, Storybrooke, che sarebbe come dire “fiume di storie”. Solo un bambino, in tutta la comunità, ha ben chiaro lo svolgersi degli eventi e cerca di risolvere, diciamo così, i problemi dell’aldilà nella vita dell’aldiquà.
Ogni episodio si concentra su un dato personaggio, ne sviscera la storia, mostrandoci parallelamente la sua esistenza “normale” e quella che vive/ha vissuto nel luogo mitico da cui provengono le favole. In sé e per sé, come prodotto, è anche buono, animato da notevole riflessione intellettuale e da scopi affatto condivisibili.
E tuttavia non convince. Lo si guarda volentieri, ci si diverte un pochino nel capire chi è chi di qua e di là, però si fatica ad andare oltre questo. Non sembra lasciare, chiusa la tv, granché su cui parlare o ragionare. Gli attori sono bravi, a partire da Jennifer Morrison già vista in Dr House per finire con la star Robert Carlyle di Full Monty e tanti altri film.
L’idea di base è molto bella ed è pregevole che si voglia provare a creare una serie su temi di fantasia – genere fantasy che troppo spesso viene relegato alla definizione di “roba da bambini” persino nelle Università che invece dovrebbero prestare maggior attenzione al fenomeno (in moltissimi atenei italiani Tolkien è pressoché sconosciuto) – ma il prodotto finale si scontra con la difficoltà di utilizzare mezzi adeguati per ricreare un mondo onirico che solo le produzioni cinematografiche hanno soldi sufficienti a far rivivere.
Lo si guarda per premiare lo sforzo letterario da cui scaturisce ma rimane, per il momento, un prodotto poco capace di amalgamare in maniera credibile due mondi così diversi. Come a dire che, tirate le somme, aveva forse ragione Aristotele ed è meglio non mescolare i generi. A meno che uno non sia davvero bravo.