InputPiccolo elogio dell’ozio in tempi in cui si parla solo di produttività

A sentire Angela Merkel, l'anonima voce dei mercati, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale lavoriamo, sopratutto nel sud Europa, tutti troppo poco. E l'attuale crisi economica sareb...

A sentire Angela Merkel, l’anonima voce dei mercati, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale lavoriamo, sopratutto nel sud Europa, tutti troppo poco. E l’attuale crisi economica sarebbe almeno in parte proprio colpa di questa indolenza che inesorabile affossa il Pil, fa singhiozzare senza controllo lo spread e ci porta pian piano nel baratro della crescita zero. Di nuovo volendo stare a sentire gli istituti internazionali di soluzione ce n’è solo una: incrementare la produttività, aumentare la giornata lavorativa e diventare tutti molto più flessibili nel dove e quando lavorare. Anche l’Italia non è aliena da questa isteria stacanovista: è ancora fresca e memorabile la dichiarazione del sottosegretario Gianfranco Polillo che nel giugno scorso propose di accorciare le ferie di una settimana in modo da far guadagnare un punto percentuale al prodotto interno lordo italiano.

Se la proposta di Polillo, forse, un senso nel mondo delle statistiche, dei grafici e delle percentuali potrebbe averlo in quello reale molto meno perché l’ozio è l’altra faccia della produttività e senza il primo il secondo non può esistere. La proposta di Polillo è caduta nel vuoto confuso delle denunce, dei distinguo e dei titoloni indignati e alla fine non se né fatto niente. Non bisogna però dimenticarsene perché è strano parlare di giornate lavorative più lunghe quando il tasso di disoccupazione è fermo intorno all’11 per cento (25 per cento per i giovani ); e fa ancora più effetto sentire discorsi che inneggiano a un indiscriminato aumento di produttività quando sono sempre meno le persone che vogliono o possono acquistare il profluvio di beni prodotti, impacchettati e poi offerti a noi consumatori in “super sconti”, “occasioni” o “saldi imperdibili” che quasi mai riescono a smuoverci. E se davvero l’economia ripartisse in quarta, se tutti lavorassimo una settimana in più chi si comprerebbe tutti i nuovi oggetti del desiderio? Noi in Italia no di certo e notizia ancor più grigia per gli statistici è che da qualche mese l’ormai ex ruggente economia cinese mostra i primi preoccupanti segni di cedimento. La domanda allora é: incremento di produttività per chi e per cosa? Non sarebbe forse meglio rifarsi al vecchio motto degli anni Settanta “lavorare meno lavorare tutti'”. Ma fa ancora più effetto, come scrive il saggista britannico Owen Haterley sul Guardian di qualche settimana fa, riflettere sul fatto che nell’ultimo decennio il famigerato “9 to 5” cantato e lodato con fare ironico dalla bellissima Dolly Parton sia diventato più un “7 to 7”, o comunque una giornata lavorativa di dodici ore. Chissà se quella voce allegra e squillante della bionda originaria del Tenesse avrebbe trasformato la cacofonica rima in un ritornello memorabile come quello che conosciamo oggi.

Qualunque le sorti di quel classico della musica country, realtà dice che l’uomo lavora più adesso che trent’anni fa, e poco meno delle tredici ore di corvée medievale. In questi mille anni di spregiudicato sviluppo sembra cambiato davvero poco. “Che fine ha fatto il sogno del progresso tecnologico?”, si chiede stralunato e basito Hatherley. Sulle colonne del quotidiano britannico scrive: un secolo fa fermavi un socialista o un proto-comunista per le vie di Londra o New York e questo avrebbe elogiato l’imminente fine della schiavitù dell’uomo nei confronti del lavoro. Il filosofo e industriale americano Buckminster Fuller nel 1963 scrisse addirittura che “nel prossimo secolo la parola lavoratore perderà qualsiasi significato”. Lo stesso Oscar Wilde, forse lo scrittore più avverso al lavoro manuale della storia della letteratura, in un saggio del 1891 titolato per l’appunto “L’anima dell’Uomo Sotto il Socialismo” spiegava come “le macchine devono lavorare per noi [uomini, ndr.] nelle miniere di carbone, eseguire tutti i servizi sanitari, pulire le strade e fare tutto ciò che è noioso e provoca angoscia”, una chiara elegia ai tempi, secondo lo scrittore irlandese non troppo lontani dalla sua epoca, in cui tutti, e non solo i dandy, potranno dedicarsi indiscriminatamente all’ozio.

Sull’altra sponda dell’Atlantico lo scrittore americano Tim Kreider dalle colonne del New York Times rincara la dose. In un’editoriale di fine giungo si interroga su quella che lui chiama “la trappola dell’indaffarato”. Essere impegnati è diventato un nuovo status sociale, una nuova posizione più che desiderabile che con la sua sfilza infinita di impegni, eventi, limiti e scadenze rende impossibile fermarsi a pensare, interrogarsi e porsi le domande che davvero contano. Fondamentalmente, sembra suggerire Kreider, la maggior parte dei lavori che facciamo hanno poca utilità e come cantava già De André servono solo a “correre più forte della malinconia”. Ma per Kreider c’è anche qualcosa in più. L’essere “indaffarato” è anche un atteggiamento di classe, tipico dei figli della classe media, si presume impauriti dall’erosione della loro posizione sociale, che sentono il dovere di essere sempre impegnati, non darsi mai una tregua e vedere gli amici “soltanto rubando tempo al lavoro”. Oggi la maggior parte delle persone è dominata da questo senso di colpa imposto dalla non-produzione, dal non-creare, dal non-spingersi in avanti e dal non guadagnare quando tutti gli altri si dimenano a destra e a manca per fare la stessa cosa. Anche i bambini ormai sono indaffarati; organizzati tra corsi, lezioni e attività extra scolastiche in modo così serrato da non aver più a disposizione quelle preziose ore pomeridiane in cui non c’è nulla da fare e la fantasia corre veloce per nuove inesplorate strade. Che fare dunque quando a dominare – e qui nessuno può negarlo – sulle nostre vite è l’economia e i suoi annessi grafici.

Quando Pollillo propone di lavorare una settimana in più invece di andare in vacanza può essere ragionevole nei termini che sono oggi imposti sulle nostre vite. Senza passare per le teorie della gauche di tendenza alla Latouche, la crescita del Pil a ogni costo va messa almeno in discussione e analizzata come uno dei possibili metri di sviluppo del paese, non come l’unico inattaccabile totem. Come conclude sapido Kreiman: “Nessuno di noi vuole vivere così, almeno non più di quanto una persona voglia essere bloccato nel traffico o nella competizione delle classifiche scolastiche – è un qualcosa che in modo collettivo forziamo sull’altro”.

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