Esistevano, un tempo, le beneamate professioni liberali: medici, avvocati, notai, ingegneri, solo per citare le più note e le più risalenti.
Non temano i nostri lettori: non è che oggi non esistano più, anzi: sono al punto diffuse ed estese nei ranghi, che oggi è più difficile trovare un idraulico che non un avvocato. Quello che a noi pare non più aggiornato è continuare ad appellare queste professioni con l’aggettivo liberale.
Il nostro dissenso ha poco o punto a che fare con le credenze politiche di chi scrive. Anche perché quell’aggettivo rivolto ad una professione, per nostra fortuna, non ha mai avuto alcun significato politico.
Presso i Romani, infatti, la prestazione dell’avvocato non era remunerata. O meglio, l’avvocato non poteva pretendere il pagamento della propria attività nei confronti del cliente, perché l’ordinamento romano non riconosceva un’azione a tal fine, ma qualificava il rapporto avvocato/cliente come mera obbligazione naturale. Absit iniuria verbis: né più né meno di quanto avvenisse – ed avvenga tuttora – per la professione più antica del mondo, anche se nessuno mai ha pensato di chiamare le prostitute professioniste liberali!
All’avvocato, e come a lui al professionista in genere, veniva riconosciuto, per volontà del cliente, un honorarium, un riconoscimento in denaro, l’antesignano degli onorari dei professionisti moderni. E siccome questo honorarium era elargito su volontà del cliente, che non poteva esservi costretto, il diritto romano lo trattava alla stregua di una donazione. Di un atto di liberalità, come dicono i giuristi.
Da qui spiegato perché quelle professioni venissero (e vengano) chiamate professioni liberali.
Ovviamente, l’età dell’onorificenza delle professioni durò poco. Tanto che la prestazione professionale divenne obbligazione civile, anziché naturale, riconoscendo la possibilità di chiedere giudizialmente al cliente il pagamento di quanto dovuto.
Rimase, per molte professioni, la qualifica di onorario per indicare il “prezzo” della prestazione, ma si trattava solo di un residuo storico.
Nel nostro paese, poi, lo sviluppo fu tale che per ciascuna professione venne stabilita una tariffa ministeriale per le singole attività, con ciò sancendosi la distinzione rispetto all’idea di prezzo, comunemente utilizzata nel mercato di beni e servizi.
Non si tratta di una mera distinzione tra tariffa e prezzo. Si tratta, a detta dei rappresentanti di molte di queste professioni, di una inconciliabilità assoluta tra il vile prezzo di una saponetta, di un abito e il valore intrinseco del servizio da essi fornito.
Tali difese vengono opportunamente lardellate da richiami al decoro, alla dignità delle professioni, con lo strapuntino di qualche preteso riferimento costituzionale. Come se il sarto, o il commerciante, non meritassero una qualche forma di decoro, di dignità, e non trovassero, per quanto occorrer possa, una riga nel testo costituzionale utile alla bisogna.
Ma qual è la vera distinzione tra la tariffa ed il prezzo?
A noi, molto sommessamente, pare che la distinzione corra tra la pretesa, o presunzione, dei sostenitori del regime tariffario, di poter individuare, ad un qualche livello centrale (un qualche Ministero, una qualche Commissione, un qualche Ufficio comunale), il giusto prezzo di un servizio o di un bene; e il riconoscimento, da parte dei sostenitori del sistema dei prezzi di mercato, di un presupposto essenziale di una società aperta e di mercato: che non sia possibile predeterminare, ad un qualsivoglia livello centrale, il prezzo fisso di un servizio o di una merce.
A noi pare che i sostenitori di un regime di tariffe pecchino di quella che l’economista austriaco Hayek chiamava la presunzione fatale, propria del socialismo, che immaginerebbe di poter convogliare, raccogliere ed elaborare tutte le informazioni necessarie, esistenti in natura a livello diffuso, per determinare a quale prezzo si debba vendere un kilowatt di energia, un litro di carburante, una difesa processuale, un chilo di sale.
Questa presunzione fatale, la cui impraticabilità economica venne spiegata su di un piano scientifico già novant’anni fa da Ludwig von Mises, e venne comprovata su di un piano storico dal crollo delle economie pianificate nel 1989, si fonda su di un esiziale fraintendimento di come la società ed in essa gli individui operino, contro il quale ci aveva ammonito oltre duecentocinquant’anni addietro Adam Smith: «l’uomo di sistema… sembra immaginare di poter disporre i diversi membri di una grande società con la stessa facilità con cui una mano dispone i diversi pezzi sopra una scacchiera. Egli non considera che i pezzi sopra una scacchiera non posseggono altro principio di movimento oltre a quello che la mano imprime loro; ma che, nella grande scacchiera della umana società, ogni singolo pezzo ha un proprio principio di movimento, completamente diverso da quello che un legislatore possa scegliere di imprimere su di esso» (Theory of Moral Sentiments, 1759, parte VI, sezione ii, capitolo 2).
In una società libera, in cui gli individui vivono, operano, producono con miriadi di transazioni, contratti, scambi, quotidiani, è assolutamente impossibile pretendere di stabilire da parte di una qualsiasi mezza manica amministrativa, ed un volta per tutte, il prezzo di questo o quel bene, di questo o quel servizio.
E questa regola di esperienza millenaria, che per come la società funziona ed opera ha la stessa evidenza del principio fisico per cui un oggetto cade a terra per la forza di gravità, non può subire eccezione solo perché si parla di un servizio legale o della consulenza di un medico.
Non è realistico credere e pensare di alterare la forza di gravità. Ed è del pari irrealistico ed ingenuo pretendere di alterare i benefici della divisione del lavoro e della funzione dei prezzi.
I prezzi, infatti, così come si formano nel mercato e da questo vengono veicolati, portano con sé innumerevoli informazioni altrimenti disperse, raccolte con le transazione e coi contratti, a beneficio del consumatore e del produttore.
L’alternativa al sistema dei prezzi, e del mercato che li produce, è una qualche forma di pianificazione, di programmazione. Che quest’ultima possa essere preferibile lo dubitiamo, con il suffragio di molti esempi che la maestra Storia ci fornisce: fallirono i calmieri di Diocleziano, che avevano dalla loro la brutalità delle condanne a morte inflitte dall’ultimo imperatore romano. E fallirono i controlli sui prezzi durante la Rivoluzione francese, che aveva dalla sua la minaccia del marchingegno sanzionatorio inventato dal dottor Guilloten.
Esigiamo, però, un minimo di chiarezza, e di coerenza, storico-lessicale.
Se le professioni liberali così si chiamavano in ragione del regime giuridico degli onorari, la pretesa di mantenervi una qualche forma di pianificazione tariffaria dovrebbe portare con sé un aggiornamento della definizione.
Chiamiamole, per cortesia, professioni socialiste.