L’informatica migranteSe 40 ore vi sembran poche

Ogni volta che sento parlare di quanto sta accadendo in Grecia tremo. Non importa se il nostro Presidente del Consiglio va ripetendo che "La ripresa è dentro di noi": vedo e ascolto ogni giorno cos...

Ogni volta che sento parlare di quanto sta accadendo in Grecia tremo.

Non importa se il nostro Presidente del Consiglio va ripetendo che “La ripresa è dentro di noi”: vedo e ascolto ogni giorno cose che mi fanno capire che se la Troika verso di noi non si esprime negli stessi termini è solo perché siamo abbastanza docili da capire da soli. Non a caso molti dei provvedimenti “suggeriti” ai greci da noi sono già perfettamente agiti.

Nonostante questo leggendo la richiesta giunta al governo greco di provvedere ad aumentare la flessibilità in uscita per il lavoratori e aumentare i giorni lavorativi settimanali ho ripensato all’ondata di “studi” periodicamente pubblicati sui nostri periodici circa la scarsa “produttività” dell’Italia.

Nel suo “La lotta di classe dopo la lotta di classe” Luciano Gallino ricorda che la produttività va intesa come valore aggiunto per ora lavorata e sottolinea:

“I media, i manager, molti imprenditori e quasi tutti i politici, intendono la produttività come quantità di pezzi sfornati all’ora da un operaio, restando con ciò aderenti ad un’immagine della produttività resa celebre dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin. Produrre un elevato valore aggiunto per ora di lavoro non deriva affatto dal lavorare più in fretta, e ben poco dal lavorare meglio nel senso di non sprecare tempo, non fare pause, compiere solo i movimenti prestabiliti e simili. La quantità di valore aggiunto per ora lavorata deriva in massima parte dal tipo di prodotto che un’impresa sa inventare o sviluppare; dai mezzi di produzione che si utilizzano; dalla strutturazione complessiva del processo di fabbricazione; infine dall’organizzazione del lavoro.”

E credo che onestamente non pochi di noi siano in grado di accorgersi di quanto questo sia vero: di benessere dei lavoratori e qualità del lavoro non si interessa più nessuno da molto tempo e i contratti precari non contribuiscono certo a far sì che i lavoratori siano spinti a proporre migliorie di processo.

(E questo lo dico guardando a quelle che dovrebbero essere aziende che producono servizi innovativi legati all’informatica e alle nuove tecnologie che continuano a sperare di poter sopravvivere senza spendere un euro in formazione e assumendo per pochi euro: davvero la concorrenza anche in questi settori si vince solo giocando al ribasso? E chi invece prova ad andare in direzione ostinata e contraria davvero crede di poter sopravvivere agendo così da solo?)

L’attacco costante alle giornate di ferie e alle festività pagate, il paragone continuo con gli Stati Uniti, dove la rappresentanza sindacale, si sa, è inesistente e le condizioni di lavoro per la maggior parte dei lavoratori americani sono tali da costringerli a vivere in case mobili o rulotte (come ha raccontato benissimo Joe Bageant in “La bibbia e il fucile“), mi dispiace, non bastano a convincermi che godendo di meno tempo libero e peggiori condizioni di vita sarei più utile alla crescita economica del mio Paese.

Anzi.

Ma con crescente arrendevolezza vedo i miei coetanei ritenere che questa sia l’unica via possibile.

Non so se sia una sensazione dettata dal vedere il modo così docile con cui nella Capitale si accetta ogni condizione pur di non perdere il proprio posto di lavoro.

Però ecco, temo che l’idea di essere dei privilegiati, nonostante contratti a termine, nonostante una qualità del lavoro sempre più scadente, si sia infilata come un germe, abbia funzionato preso posto tra i sensi di colpa anzichè infilarsi tra i tasselli che compongono la rabbia.

Quando a inizio anno il Governo ha varato alcuni provvedimenti per “aiutare i giovani” prevedendo forme di detassazione per le imprese che assumono under 35, ho pensato che la disoccupazione venisse intesa come un falso problema. Non è un caso infatti che pochissime aziende hanno ricorso a questa opportunità e non è un caso che manovre simili, a livello regionale o provinciale, mi sia capitato di vederne già in passato, senza conseguenza alcuna.

Anzi: ho avuto modo di vedere che molto spesso nelle piccole imprese, dove la lettura dei quotidiani è considerata forse una perdita di tempo, la notizia di questi provvedimenti neppure arriva.

Costruire il terreno per far accettare l’idea che siamo un popolo di scarsi lavoratori (e, come qualcuno sosteneva a suo tempo, l’attacco ai fannulloni del pubblico impiego è stata solo la punta dell’iceberg per colpire tutti) e quindi dobbiamo lavorare tutti di più, aumentare l’età pensionabile, continuare a ragionare in termini di austerità anzichè pensare a un piano industriale serio per l’Italia, ecco sono indici che poco hanno a che fare con la consapevolezza dei danni sociali, culturali, umani che produce la disoccupazione crescente e il lavorare, inutilmente, di più.

Presso il municipio di Vercelli una targa ricorda il primo giugno del 1906: data in cui venne firmato un accordo tra gli agrari e il sindacato per le 8 ore di lavoro al giorno per le mondine.

Sta li, assieme alle targhe che ricordano la fine delle guerre, i caduti. E non ho nessuna ragione di pensare che quella, assieme a tante storie importanti della lotta sindacale in Italia, siano state tanto nocive per l’economia del nostro Paese da dover essere annullate.

No, non credo che stia dentro a quelle storie la ragione della nostra crisi, nè che la loro cancellazione ne sia la soluzione.

Anzi.

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