A Place To Bury Strangers? Più che un luogo dove seppellire qualcuno direi piuttosto un posto dove sfondare i timpani agli stranieri. Perché la musica di questo trio newyorchese, se non si è preparati, potrebbe tranquillamente rendervi sordi. L’impatto col wall of sound prodotto dagli APTBS ti investe a qualsiasi distanza dagli amplificatori, grazie alla violenza sonora delle loro composizioni.
Armonie latenti che si percepiscono solo quando il chitarrista e cantante Oliver Ackermann e il fanatico bassista Dion Lunadon smettono di suonare all’unisono e si alternano finalmente per lasciar percepire un minimo di melodia. Il batterista, Robi Gonzalez, col suo piccolo drum pad aggiunto al suono della grancassa, cerca affannosamente di emergere dallo strato omogeneo di “rumore” prodotto dagli altri due componenti del gruppo nato nel 2003.
Quel che ne esce è un atmosfera alienante, a tal punto da mutare le espressioni dei volti del piccolo pubblico del Traffic di Roma, che sabato sera ha avuto così accesso a una delle uniche due date italiane di “Kill before you’re killed”, il tour europeo degli A Place To Bury Strangers.
Non hanno distribuito i tappi per le orecchie come fecero in un tour del 2007, forse perché alcune tracce dell’ultimo disco uscito a giugno, “Worship”, presentano una melodia vocale importante che rimanda al post punk degli anni Novanta, anche se rapidamente soccombe sotto le linee del basso distorto, una robotica e rugginosa batteria industriale, e la pesante presenza delle varie pedaliere del chitarrista che da anni promuove la sua compagnia di effetti, DIY studio, molto apprezzati da artisti come i Nine Inch Nails, gli U2, Wilco e – non ridete – Lady Gaga (cosa ci farà mai Lady Gaga con una pedaliera solo il direttore artistico del Festival di Sanremo potrebbe saperlo!).
L’hanno definita “The loudest band in New York” quando pubblicò l’album di debutto nel 2007 presentandosi come una giustapposizione di shoegaze, psichedelia e space rock, riprodotta attenendosi fedelmente alla tecnica di Phil Spector, produttore e songwriter che sperimentò il Wall of sound negli anni Sessanta, aggiungendo alla classica strumentazione pop, basso-chitarra-batteria, strumenti tipici della musica orchestrale, come gli archi, registrati e poi sovrapposti fino a ottenere un riverbero e un suono più denso, “un approccio wagneriano al rock and roll” come lo stesso Spector amava definire.
Oltre l’imponente livello del volume, c’è una presenza scenica retta principalmente dall’esuberanza di Dion Lunadon, aggiuntosi al gruppo di recente, che nella serata di sabato non ha esitato a scendere tra la folla durante l’esecuzione di “Don’t play with my heart”, presente nel penultimo album del 2009, “Exploding Head”, manifestando tutta la sua passione per quelle parti strumentali in cui la ritmica e la melodia entrano in una dicotomia inebriante.
La collaborazione con Lunadon, dice Ackermann, è stata fondamentale per la creazione di “Worship”. La combinazione dei backgrounds dei due ha contaminato l’attitudine noise del leader, seguace dei Jesus and Mary Chain, con le sonorità del garage predilette dal bassista. E di solito, quando mondi differenti si incontrano, se c’è una buona apertura mentale, non si può che evolvere.