Venezia Cricket : integrazione all’inglese, in Italia

Scendo dall’autobus, il numero 5 da Venezia, e mi fermo sul bordo della strada. Sono a Campalto e non so bene dove andare, non sono pratico dei luoghi. Tutt’intorno, case come ce ne sono tante nell...

Scendo dall’autobus, il numero 5 da Venezia, e mi fermo sul bordo della strada. Sono a Campalto e non so bene dove andare, non sono pratico dei luoghi. Tutt’intorno, case come ce ne sono tante nella Terraferma veneta, grigie e squadrate, anonime, tristi. In più, la giornata è uggiosa.

Poi giro la testa a destra e rimango senza fiato. Possibile che in mezzo a questa periferia urbana uno creda di essere finito a Hyde Park? Un manto di erba verde, con piccoli declivi e contornato da alberi, oltre un piccolo canale su cui passa un ponticello. Al centro del campo – quasi non ci credo – un nugolo di uomini vestiti di bianco. Giocano a cricket.



La storia del Venezia Cricket Club è una di quelle storie che andrebbero riportate, raccontate, esplorate e invece se ne sa ancora troppo poco. Come molte cose azzeccate, quest’iniziativa nasce quasi per caso. Nel 2006 Alberto Miggiani, architetto, nota che da un po’ di tempo nel parchetto di fronte a casa sua un gruppo di ragazzi dalla pelle scura gioca a qualcosa che lì per lì lui non comprende. Non sa ancora nulla del cricket e di come lo assorbirà in futuro. I ragazzi giocano, apparentemente silenziosi; tranne che ogni tanto, forse in corrispondenza di un punto, si alzano delle urla.

Poi cominciano le processioni a casa Miggiani. Due ragazzini, forse indiani, si presentano al cancello di casa e molto educatamente chiedono se possono recuperare la palla finita in giardino. Una, due, tre volte. Finché Alberto, un giorno, non decide di voler capire a cos’è che giocano questi benedetti ragazzi. Segue i due indiani sino al parchetto e si mette seduto. E gli antichi rituali del cricket, le movenze codificate, il codice di gioco che vede applicato da questi giovani immigrati lo affascinano.

Non sa nulla di come si gioca a cricket, ma chiede ai ragazzi – fino ad allora solo ragazzi che si incontravano per giocare alla buona, come i nostri quando si dicono “allora stasera calcetto” – di poter dar loro una mano ad organizzare la cosa. Si deve scegliere un nome, per questa nuova squadra, e Alberto lascia che scelgano i ragazzi: e per loro non c’è dubbio, sarà Venezia Cricket Club, la città cui il destino ha deciso che appartenessero, loro nati così lontano ma vogliosi di integrarsi alla meglio.

Sul campo non si sentono parolacce. Ci sono facce diverse, facce che parlano di paesi differenti e affascinanti: India, Bangladesh, Sri Lanka, Italia, Moldavia, Romania, Kosovo. I ragazzi sono tesi, si vede. E come dar loro torto? Oggi giocano contro il Marylebone Cricket Club, una leggenda del cricket britannico.
Alberto e la moglie Mariella sono attivissimi. Lui e il team hanno allestito tre gazebo bianchi. Sotto uno di questi, i giocatori inglesi ed il manager che sembra il provost di Eton. Si parla inglese, ma si sentono anche lingue che nessuno di noi capisce. I ragazzi sorridono, si fanno scherzi.

“Mariella, catch!”, urla uno di loro all’indirizzo della moglie di Alberto, lanciandole le chiavi del furgone che la squadra ha ricevuto in dono dallo sponsor.
A fianco del campo, gli orti degli anziani che lavorano indefessi alle loro primizie. Ma tutto è in perfetta armonia.

Alberto ha fatto costruire un vero e proprio pitch sul campo d’erba: ci sono i due wickets e tutto sembra davvero britannico. Peccato che il Comune dia la medesima area in prestito a feste di partito ed altre manifestazioni. L’ultima volta, si sono messi con un’autoambulanza proprio sopra al “sacro” pitch che aveva richiesto tempo e fatica per essere steso a dovere. Ma nessuno si lamenta troppo – tutti sono fiduciosi che la cittadinanza e il Comune capiranno l’importanza di questo esperimento sociale.

Comincia a piovere. Tutti ci rifugiamo sotto i gazebo e gli uomini in bianco continuano a giocare.
“E’ inutile, è la maledizione di cricket!” dice Warren, un amico inglese, “Non è possibile avere 11 uomini in bianco senza la pioggia, anche in Italia!”

Verso l’ora di pranzo, Mariella arriverà a portare da mangiare per le due squadre. Che dimenticano di essersi appena affrontate e mangiano insieme, da buoni amici. Anche questo è British fairplay.

Io me ne torno a casa, con in testa ancora il sorriso bianchissimo di questi giovani indiani che hanno deciso che si poteva giocare a cricket anche a Venezia, anche dove nessuno sa che cosa questo sport rappresenti. E giocare bene, visto che dal 2007 continuano a collezionare trofei in Italia e all’estero – del resto Marylebone non si sarebbe mosso per una squadretta di dilettanti.

E poi capisco che quando si parla di immigrazione è a questi esempi che si dovrebbe guardare. A questi giovani indiani ed alle regole di rispetto e correttezza del cricket. Ogni volta che tirano una palla, con le movenze tipiche del lanciatore esperto, ci aiutano a sperare in un’ Europa migliore.