Un forte vento centralista si sta abbattendo sul mondo delle autonomie. Per anni ci hanno raccontato (e non solo i leghisti) che buona parte, se non tutti, i mali del nostro Paese dipendevano dall’eccessiva concentrazione romana dei poteri. Che occorreva non soltanto dare piena attuazione ai principi costituzionali di autonomia e di decentramento, ma trasformare l’Italia in un vero e proprio Stato federale, con tanto di Camera delle Regioni o delle autonomie.
L’esigenza di dare voce e potere agli enti territoriali e di autonomia ispirò, nel 1997, una serie di misure introdotte con la riforma Bassanini. Una rivoluzione che venne scatenata con una semplice legge ordinaria, a Costituzione invariata.
Ma la causa del federalismo chiamava. E non si poteva perdere tempo con le procedure.
Lo stesso anno furono avviati i lavori della sfortunata Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, la famosa Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che avrebbe dovuto dare copertura costituzionale alla riforma del federalismo amministrativo appena varata.
Il fallimento della Bicamerale non impedì al centrosinistra di approvare la riforma costituzionale. In due tempi: nel 1999 rafforzando l’autonomia statutaria delle Regioni e introducendo una forma di governo regionale incentrata sull’elezione diretta dei Presidenti (che da allora divennero, nel linguaggio comune, Governatori…); nel 2001, cambiando integralmente il Titolo V della Parte II della Costituzione.
Notevoli le novità. Almeno sulla carta.
Tra le più rilevanti la previsione di un metodo “federalista” di distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni: al primo poche (ma buone); alle seconde tante, ma non ben definite. In mezzo una pletora di materie rimesse alla disciplina concorrente dell’uno e delle altre. E la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, già introdotto nell’ordinamento dalla prima legge Bassanini.
La sussidiarietà, principio oggi un po’ demodé nel dibattito pubblico, secondo il quale le funzioni amministrative sono attribuite di regola ai Comuni, a meno che non sia necessario, per garantirne l’esercizio unitario, conferirle alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni o allo Stato.
In breve, l’idea che da circa vent’anni ha ispirato le riforme istituzionali è stata quella per cui la misura ideale del potere politico sarebbe la small. Fatta sempre salva la prova del contrario.
Si è detto che gli enti piccoli, quelli più vicini alle comunità governate, sono, per definizione, più facilmente controllabili da parte delle stesse comunità di riferimento e, quindi, meno spreconi, più attenti alle reali esigenze dei cittadini e meglio attrezzati per soddisfarle in modo adeguato. È l’idea che sta anche alla base dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali e di quel “federalismo fiscale” di cui si parla sempre meno.
La riforma del Titolo V, a giudicare dai risultati, non ha giovato molto alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Il nuovo quadro delle competenze legislative ha generato un contenzioso enorme tra Stato e Regioni per la delimitazione dei confini dei rispettivi ambiti d’intervento. E la Corte costituzionale ha faticato non poco a trovare criteri di risoluzione delle controversie assenti nel testo riformato della Costituzione, invocando, come in un appello al cielo, la leale cooperazione tra enti.
A dispetto di proclami e riforme, nel complesso, l’esperienza regionalista è apparsa deludente agli studiosi della materia (si vedano, in tal senso, le interviste pubblicate su Dirittiregionali.it), così come l’evoluzione dell’intero sistema delle autonomie territoriali.
Il resto è storia recente: la crisi economica e gli scandali degli abusi e degli sperperi perpetrati nei centri di potere regionali e locali hanno fatto riscoprire improvvisamente il tema scomodo dei costi della politica. E di quelli dell’autonomia.
La scure del Governo Monti si è abbattuta dapprima sugli enti territoriali diffusamente visti come i più inutili: le Province, riducendone, con il decreto “salva Italia”, funzioni e organi e, poi, con quello sulla spending review, “riordinandole” e, dunque, di fatto, sopprimendole e accorpandole.
Poi lo stesso Governo ha approvato un disegno di legge di revisione del Titolo V della Costituzione che tende ad introdurre quella che è stata definita una sorta di “controriforma” (Candido, Ruggeri-Salazar). Una proposta dal forte sapore centralista, che ridimensiona drasticamente le competenze regionali.
La tesi che dunque sembrerebbe volersi sostenere ora è che l’autonomia è sempre e comunque fonte di sprechi. Così avrebbe dimostrato la storia. Meglio accentrare le competenze e ridurre, ove possibile, gli organi e le funzioni degli enti territoriali minori. In attesa di poterli eliminare del tutto.
Siamo sicuri, però, che le cose stiano così?
Ammesso pure che, nell’esperienza maturata negli ultimi decenni, i soggetti di autonomia non abbiano dato, nel complesso, grande prova di saper gestire in modo efficiente ed efficace la cosa pubblica, possiamo forse concludere che maggiori garanzie offrano in tal senso i poteri centrali?
E, soprattutto, possiamo davvero giudicare il valore dell’autonomia soltanto sulla base di parametri di natura economica? La libertà ha un costo, non c’è dubbio. Come l’eguaglianza. Possiamo rifiutarci di pagarlo senza smettere di essere sovrani?
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