di Nicola Cappelletti
Sono iscritto alla SIAE come autore e compositore dal novembre del 2005. Ricordo bene quel giorno. Andai apposta a Roma, in via della Letteratura, dietro i monumentali palazzi dell’EUR, e depositai le mie canzoni.
Molti di voi avranno avuto a che fare con lei per una festa o un compleanno, imbattendosi almeno una volta nella richiesta di un borderò, passando ore a chiedersi se la gente balla o no a una festa, per sapere quanto pagare. Ma per chi fa musica, chi scrive, è ovviamente diverso. Coronare un sogno di infanzia, essere in qualche modo riconosciuto e tutelato come autore di canzoni, costa solo 220 euro. Hanno tolto pure l’esame, con cui fino a pochi anni fa si doveva dimostrare di essere in grado di scrivere per lo meno tre note in sequenza. Ieri leggo distrattamente del debito di un milione raggiunto nei confronti degli associati.
Mi annoia così tanto l’ennesimo scandalo italico di cui si parla solo quando raggiunge numeri tondi ed eclatanti, che nemmeno approfondisco. Tanto la mia verità la conosco già. E ci vede ovviamente, come al solito, tutti vittime e carnefici. Chi sono gli oltre 80.000 associati SIAE? Il 95% di loro sono autori. Con buona approssimazione, possiamo dire che circa 40.000 non sono professionisti. E sono loro a vantare un credito che non vedranno mai ripagato. Tra gli associati, sono i musicisti sconosciuti che nutrono il sistema, a forza di quote annuali e a fronte di zero dividendi. Tanto che quando ti arriva il primo assegno da 13 euro sei tentato di metterlo in cornice e appenderlo alla parete. E sono loro a barattare la sensazione di entrare in un circolo ristretto, di essere in qualche modo riconosciuti, con la colpevole appartenenza. Della tutela reale, in fondo, non si cura nessuno, salvo i professionisti, gli editori e Albano Carrisi.
Il vero problema è che la SIAE, fondata nel 1880 e dal 1921 convenzionata con lo stato italiano a vario titolo, è un retaggio di un mondo in estinzione di cui non possiamo liberarci. Una aberrazione, in cui si paga prima di divertirsi, si paga per far arte, si paga per suonare, si paga per far suonare, si uccide l’espressione a colpi di avidità, si esercita il controllo sociale e culturale nel modo più bieco e stolto, in cui l’intento, nobile, di tutelare la paternità dell’opera, ha lasciato posto alla sola necessità di nutrire il sistema stesso. Parlare per luoghi comuni. Oggi mi salverà solo questo. Proprio ora che scrivendo questo pezzo mi rendo conto una volta di più della stupidità del gioco, della miseria di una felicità infantile che si materializza due volte all’anno all’accredito dei miseri diritti. Siamo ancora tutti bambini che barattano un dente per degli spiccioli.
Metti insieme la burocrazia del peggior ministero degli affari inutili, la svogliatezza impiegatizia del peggior ufficio postale, l’avidità usuraia del più agguerrito degli agenti di equitalia, un immobilismo tanto esasperato da apparire quasi romantico, un’anacronismo del tuo essere che solo il nostro paese ti permette di conservare.
SIAE,
Sei il miglior paradigma di quest’Italia in cui tutti pretendono e pochi danno, in cui chi si vende l’anima è contento di farlo con leggerezza, in cui chi protesta lo fa perché non è lui il privilegiato di turno, e alla prima occasione, al primo assegno di ottanta euro, intravede la scorciatoia per la rendita facile.
Sei l’ostacolo ottuso, il cavillo cercato ad ogni costo. L’occhio severo borghese che solleva il sopracciglio per giudicare. E ci stai comprando con la fame, tenendoci in vita con la speranza di vedere ripagate almeno un po’ delle nostre fatiche, ingrassando il meccanismo, lasciandoti morire del cancro che nutri, metastasi marcita al sole del guadagno.