Quando ero molto giovane credevo che fosse sacrosanto finanziare con denaro pubblico i giornali. In particolare credevo fosse un diritto inviolabile quello dei cittadini delle periferie più remote potere accedere alla stessa informazione alla quale, senza finanziamento pubblico all’editoria, avrebbero probabilmente potuto accedere soltanto i cittadini delle grandi città e dei capoluoghi.
Quello della distribuzione è uno dei costi principali che un giornale deve sostenere per esistere, ed è nella consapevolezza di quest’evidenza che per anni mi sono schierato contro la ragionevole pulsione che chiedeva che esistessero solo giornali in grado di resistere sul mercato.
Credo ancora che quella mia dell’epoca fosse un’opinione corretta, ancorata a un principio valido e di rango superiore ad altri che pure non erano scorretti. Altrettanto convintamente però ammetto che quell’idea oggi non regge più.
I giornali quindici anni fa erano ancora l’unico strumento davvero in grado di provvedere alla circolazione delle idee e delle opinioni, anche di quelle più minoritarie e singolari, ma oggi non è più così.
Ora è nella disponibilità di chiunque dare notizia della propria opinione elaborata come singolo o in aggregazione con altri cittadini, e da chiunque queste opinioni sono raggiungibili fermo l’onere della ricerca e la pulsione della genuina volontà di informarsi.
Non è quindi più tollerabile che un’impresa giornalistica pretenda di ricevere denaro pubblico per continuare a fare informazione attraverso canali improduttivi e sempre più obsoleti, puniti non a caso dal mercato nella stragrande maggioranza dei casi.
Tuttavia non riesco a condividere la felicità che Beppe Grillo manifesta alla notizia della propabile chiusura di settanta testate giornalistiche. Nel merito ha ragione: non possiamo e non dovremmo finanziare imprese fallimentari, ma non si può salutare con soddisfazione il fatto che tante iniziative editoriali non siano state in grado di rinnovarsi e di comprendere i tratti dei nuovi orizzonti dell’informazione, che tra l’altro – io credo – non sono ancora facilissimi da decifrare.
Si potrà esser felici, di qui a breve, se potremo risparmiare i soldi che collettivamente spendiamo per alimentare un mercato che risulta evidentemente drogato. Ma felicità completa sarebbe se molte di quelle testate trovassero la forza necessaria ad adeguarsi e a non morire.
Le società editrici che falliscono perché non trovano la forza di rinnovarsi, o che neanche ci provano perché – svelando così la loro cattiva fede – ritengono esaurito il business della mangiatoia pubblica non possono dar spunto a soddisfazione. In entrambi i casi suggeriscono, a parer mio, una cattiva notizia: per un verso perché palesano la generale debolezza del sistema che si genera non solo nella inettitudine di chi informa ma anche nell’inerzia della domanda di informazione di qualità, e per un altro perché confermano la cifra della connivenza collettiva alla quale molti per gola e tantissimi altri per omissione hanno contribuito per lunghissimi anni.