La democrazia e i suoi derivatiIl terremoto dell’Aquila e il diritto umano all’errore scientifico

Quid est veritas? Cos’è la verità, chiede Ponzio Pilato a Gesù Cristo. Formidabile interrogativo, che secondo qualcuno esprimerebbe il vero spirito democratico, relativista e scettico. La democraz...

Quid est veritas? Cos’è la verità, chiede Ponzio Pilato a Gesù Cristo. Formidabile interrogativo, che secondo qualcuno esprimerebbe il vero spirito democratico, relativista e scettico. La democrazia dovrebbe disinteressarsi del problema della verità, riconoscendo alla maggioranza il compito di decidere di volta in volta sulle questioni d’interesse generale.

Certo la maggioranza non è infallibile, essendo a sua volta composta da tanti uomini, tutti a loro volta fallibili; può, dunque, capitare che, in qualche caso, la maggioranza prenda grandi cantonate. Come nella vicenda in occasione della quale fu espressa la celebre domanda di Pilato.

La democrazia però non può disinteressarsi del problema della verità. Non può farlo, ad esempio, quando i suoi uomini sono chiamati a giudicare altri uomini, a verificarne le responsabilità e a comminare sanzioni. In questi casi il problema della verità – si dice, con un certo pudore, della “verità processuale” – riemerge in tutta la sua portata.

Quali principi e quali metodi vanno, dunque, applicati per la ricerca della verità processuale in uno Stato democratico? Meglio: in uno Stato democratico costituzionale, che scaturisce dalla conquistata consapevolezza della fallibilità di ogni maggioranza e che prevede un sistema di garanzie contro i rischi di tirannia dei molti sui pochi e sui singoli.

È facile rispondere che il metodo è uno solo: quello dell’esatta ricostruzione dei fatti. I fatti, che nella democrazia costituzionale si impongono a ogni volontà, compresa quella della maggioranza. È, tuttavia, altrettanto facile replicare che non è sempre agevole ricostruire i fatti perché la realtà è complessa e le deduzioni e le induzioni sbagliate sono all’ordine del giorno.

Quando poi si ha a che fare con fatti scientifici la questione si complica ulteriormente. Non tutti i dati hanno il dono dell’evidenza. Non tutte le previsioni si avverano. Soprattutto in quest’ambito si può parlare – com’è stato fatto – di un diritto umano all’errore. Più precisamente all’errore scientifico.

Ha fatto il giro del mondo la notizia della condanna pronunciata ieri dal Tribunale dell’Aquila nei confronti dei componenti della Commissione nazionale dei grandi rischi per aver dato false rassicurazioni prima del sisma che distrusse la città il 6 aprile 2009.

Benché – come si usa dire in questi casi – occorra prima leggere la motivazione della sentenza per poter esprimere una valutazione completa e ponderata, l’esito del giudizio suscita già molte perplessità. Come ha scritto oggi su Repubblica Stefano Rodotà, si rischia una fuga degli scienziati dagli organi tecnici di supporto ai decisori politici, secondo una tendenza analoga a quella che ha decretato l’affermazione della medicina difensiva, alimentata dalla proliferazione dei giudizi per responsabilità professionale dei medici.

D’ora in poi quale scienziato accetterà di mettere al servizio dello Stato le sue competenze sapendo di correre il pericolo di una condanna penale nel caso in cui le sue previsioni non dovessero rivelarsi esatte?

Alla base della posizione espressa dal giudice dell’Aquila sembrano esserci due equivoci.

Il primo attiene al rapporto tra scienza e verità. Il secondo a quello tra scienza e politica.

Sul primo versante, l’idea che si scorge sullo sfondo è che la scienza abbia il compito di dare alle decisioni della politica una base di legittimazione fondata sul principio di verità. Così non è: a parte alcuni (nel complesso non molti) dati scientifici non controversi, la scienza – soprattutto in ambiti come quello della sismologia – non pone dogmi, ma si muove per congetture e confutazioni. Può fornire ai decisori politici elementi di riflessione. Non di più.

Sul secondo versante, quello del rapporto tra scienza e politica, la condanna degli scienziati sembrerebbe confondere i piani di responsabilità, dimenticando un principio cardine dello Stato diritto, secondo il quale la responsabilità segue il potere. Gli scienziati non hanno alcun potere decisorio. Possono avere forse una responsabilità morale, ma difficilmente può attribuirsi loro una responsabilità politica e ancor meno una giuridica.

Cos’è la verità? La democrazia non ha una risposta e non può cercarla nemmeno nella scienza. Come ha detto il costituzionalista tedesco Peter Häberle, la democrazia può solo porre le condizioni per una libera ricerca della verità. Condannare uno scienziato per non averla trovata significa negare le premesse ideali del sistema democratico.

Foto | Flickr.it

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