La materia non è solidaKittinger, Baumgartner e altri uomini inutili

In questi giorni d'autunno un pazzo di nome Felix Baumgartner si è lanciato da quarantamila metri. Perché? Se lo chiedono in tanti, e in tempo di spending review è una domanda carica di perplessità...

In questi giorni d’autunno un pazzo di nome Felix Baumgartner si è lanciato da quarantamila metri. Perché? Se lo chiedono in tanti, e in tempo di spending review è una domanda carica di perplessità.

L’impresa del paracadutista austriaco non è nuova, prima di lui c’è stato l’aviatore statunitense Joseph Kittinger – tra l’altro consulente del progetto Red Bull Stratos – con un lancio dal sapore decisamente più sognante di quello ad alta definizione di Baumgartner. E’ il progetto Excelsior. Siamo a cavallo tra il ’59 e il ’60 del secolo scorso e il militare della USAF Joseph William Kittinger II, con la scusa di testare il sistema “Beaupre”, il paracadute a più stadi, e il comportamento di un corpo in caduta libera ad altezze considerevoli, si gettò prima da 23, poi da 22, e infine da 31 chilometri di altezza. In orizzontale è una distanza raggiungibile da chiunque, in altezza significa stare nello spazio (anche se tecnicamente si è ancora abbondantemente nell’atmosfera terrestre) circondati da un cielo eternamente notturno e con una palla azzurra sotto i piedi.

Il 16 agosto 1960, nel suo ultimo tentativo, quello da record, Joseph (qui su immortalato mentre viene soccorso dalla squadra di recupero) si trovò davanti a un grosso problema: la sua mano. La vide gonfiarsi all’inverosimile durante l’ascesa a causa di un piccolo squarcio nel guanto che fece incontrare improvvisamente la bassissima pressione esterna con quella molto più alta del suo corpo. Non disse niente alla squadra che lo stava seguendo da terra: doveva farcela a tutti i costi, annullare la missione sarebbe stato inaccettabile. Saranno stati novantuno interminabili minuti di ascesa. Arrivato all’altezza giusta per il lancio dovette aspettarne altri dodici a settanta gradi sottozero per raggiungere il punto esatto di atterraggio circondato, come asserrì egli stesso, da “un silenzio unico”. Poi saltò, mettendocene solo quattordici per arrivare a terra e toccando una velocità massima di 988 chilometri orari. Atterrato e raggiunto dalla squadra che lo attendeva, la prima cosa che Joseph fece fu accendersi una sigaretta.

Altri tempi insomma. Non c’era diretta, streaming, twitter, soltanto una telecamera (che fa molto hipstamatic) piazzata sopra il pallone aerostatico. La cabina utilizzata da Kittinger era simile a quella di una mongolfiera: una pedana coperta da un telone. Punto. Davvero altri tempi. Se poi alla storia della mano aggiungiamo che nel primo lancio (quello da 23 chilometri) il paracadute si aprì troppo presto, gli si impigliò al collo e lo face roteare per 120 volte in un minuto, c’è da chiedersi quanta follia ci voglia per avere il coraggio di risalire lassù altre due volte. Per Baumgartner il volo, uno soltanto, è stato meno folle e decisamente più controllato, dentro una cabina pressurizzata e in collegamento radio continuo (Kittinger non poteva comunicare durante la caduta). L’unico momento delicato è stato quando pochi secondi dopo il lancio ha perso stabilità e ha iniziato a fare una trentina di capriole.

Baumgartner è salito diecimila metri più in alto di Kittinger, ha raggiunto una velocità di caduta maggiore superando quella del suono ma non lo ha battuto sul tempo totale di caduta libera (4’20” contro i 4’36” di Kittinger). Non era una gara però. Sono due storie, due personaggi appartenenti a due epoche diverse. Ok ma, a cosa serve tutto ciò? Qual è lo scopo?

Si resta affascinati dagli undici tocchi di Maradona, da Bolt che corre sotto i nove secondi, da una bella inquadratura di Kubrick, da una busta di plastica che svolazza, ma quando ci si allontana dalla terra diventa più facile domandarsi “si, ma a pro di che?”, come quando Suor Maria Jacunda scrisse al direttore scientifico della NASA Ernst Stuhlinger per chiedergli perché non usare i soldi che si spendono per le missioni spaziali per eliminare la fame nel mondo.

L’evento è andato in pasto ai media e alcuni si sono domandati circa l’utilità di una missione di questo tipo. Mai termine fu più inappropriato. La bellezza di questi eventi sta proprio nella loro inutilità. Non fanno utili, non servono per fare soldi, non servono propriamente a niente, come la poesia. Certo faranno fare un sacco di soldi, come le missioni spaziali del passato lo sono state per le telecomunicazioni e le tende di Decathlon, e il main sponsor Red Bull ha già in serbo decine di spot. Si testano materiali e corpi umani in condizioni estreme e in cambio si avranno pregevoli progressi tecnici su svariati fronti. Ma tutto questo viene dopo. Per il momento ci si gode lo spettacolo sublime di un uomo circondato da un cielo nero che per qualche minuto diventa un proiettile supersonico in rotta di collisione verso una gigantesca palla azzurra.

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