A fine anni Settanta Bologna è stata, per un breve ma intenso periodo, la capitale del rock italiano. Non che l’Italia non avesse mai frequentato la musica anglosassone, ma il nostro paese (meglio, una sua piccola, agguerrita parte) non era forse mai stato sintonizzato in maniera così evidente (e consapevole, e inventiva) sulla lunghezza d’onda di quanto accadeva oltreoceano e oltremanica, dove il punk aveva spazzato via convenzioni e tradizioni e la new wave aveva incominciato a ricostruire nuove ipotesi sulle macerie.
All’interno di una scena già di per sé piuttosto originale (tra gli esponenti ricordiamo Skiantos e Gaznevada), spiccava l’originalità del Confusional Quartet, ensemble di musica strumentale i cui quattro componenti si divertivano a frullare, in brani dal passo schizoide che ricordava per certi versi il parossismo degli statunitensi Devo, influenze televisive, jazz e rock obliquo. Il loro manifesto era una strambissima versione del celebre “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno, accelerata, circense e spigolosa, ma soprattutto assai divertente, contenuta nell’album d’esordio datato 1980 e pubblicato dalla Italian Records di Oderso Rubini.
Spentasi la fiamma del rock bolognese, mai avvicinatisi al successo mainstream i quattro, dopo aver pubblicato un paio di Ep, hanno sciolto le righe e sono ritornati nell’ombra, senza però abbandonare del tutto la musica e soprattutto senza appendere al chiodo gli strumenti. Nel 2011, riascoltando una compilation di loro vecchi brani, hanno deciso di tornare a provare insieme: il risultato di quelle session è un album intitolato “Italia Calibro X”, poco più di un demo (seppur di alto livello), sufficiente tuttavia a far tornare a circolare il nome.
Un paio di settimane fa è uscito il seguito vero e proprio dell’album del 1980, anch’esso semplicemente intitolato “Confusional Quartet” (l’etichetta è Hell Yeah!, il distributore Goodfellas). Non è l’unica caratteristica rimasta immutata: gli ingredienti musicali di base sono gli stessi, lo spirito iconoclasta pure (il singolo, “Futurfunk”, è accompagnato da un video che, illustrando i rapporti storici tra Italia e Libia, si prende gioco della retorica coloniale fascista), l’antica ossessione per il futurismo idem (il già citato singolo campiona una lettura poetica di Filippo Tommaso Marinetti).
Le novità sono però altrettanto significative: la musica è diventata più robusta, corposa e dinamica, l’abilità tecnica si è affinata, l’incontro con nuove generazioni di colleghi ha aggiunto freschezza all’insieme (Bob Rifo, ovvero la star dell’elettronica italiana da esportazione The Bloody Beetroots, nato nello stesso anno del gruppo, 1977, è coautore di “Futurfunk”, mentre Giulio Favero, ingegnere del suono componente del Teatro degli Orrori, si occupa di mixare l’intero lavoro). Insomma, la ricetta è invecchiata benissimo.
La voglia di tornare a suonare non si è limitata al lavoro in studio e se vi interessa capire che cosa ci si possa aspettare dal gruppo su un palco nel 2012, sappiate che i quattro sono in queste settimane in tour: il 2 novembre a Ferrara (Circolo Bolognesi), il 9 a Roma (Brancaleone), l’11 a Macerata (Terminal), il 29 a Modena (OFF).