In un post che ho letto ieri, il signor Manfredi, così si è firmato, mi ha invitato ad abbandonare l’idea di un partito tipo parrocchia/casa del popolo per privilegiare le idee rispetto alle tessere. Il partito di Renzi sarebbe appunto questo impasto di modernità relazionale e comunicativa contrapposta a quella del passato. Ho preso l’abitudine di non polemizzare con chi dà etichette né con chi semplifica, mostrificandole, le idee altrui. Soprattutto con chi, volendo apparire moderno, anti-ideologico, post-tutto ecc., cataloga gli altri come antichi, vecchi e, ultima dannazione, ancora comunisti. Prendo su di me tutte queste accuse e ci bevo un bel bicchiere di vino, rosso ovviamente.
Mi interessa però la sostanza di questi ragionamenti. Mettiamola così. Noi quando parliamo di partito parliamo di una cosa precisa, cioè di una organizzazione politica che ha una identità, un radicamento sociale e un programma fondamentale. Nella storia ne abbiamo avuti di diverso tipo. A sinistra fondamentalmente due, quello sul modello bolscevico, centralizzato e autoritario, finalizzato alla rivoluzione, allo stato-dittatura, all’uomo nuovo, e quello sul modello socialista-socialdemocratico, anch’esso verticistico ma profondamente libero al suo interno, nonché pragmatico e gradualista.
La Dc ha inaugurato un altro modello, quel partito arcipelago in cui convivevano correnti culturali del cattolicesimo anche largamente differenziate fra di loro che concorrevano, in competizione l’una con l’altra ma insieme contro tutti gli altri, alla guida del Paese e si avvaleva di un reticolo associazionistico che aveva agganci forti nella società attraverso sindacati e corporazioni varie. Il modello comunista italiano è stato sui generis. Era un modello di quadri e di massa, non chiedeva, almeno in apparenza, altro che la sottoscrizione del programma, era fortemente centralizzato ma la sua vita periferica era vivace e spesso contrastata, era radicato in ogni segmento della società, presente quanto le parrocchie e le caserme dei carabinieri, aveva un rapporto di comando, che poi nel tempo si è diradato fino a cessare, con le organizzazioni di tipo sindacale, esortava alla diversità e all’orgoglio di partito.
È tutto finito. Il modello che ha visto la luce, a destra come a sinistra, dopo il 1989 è diventato quello di tipo leaderistico e si è precisato a destra con il partito guidato da Berlusconi che ha auto diverse stagioni, è stato di quadri (Finivest) e di intellettuali (Melograni, Colletti, Ferrara, Pera e Vertone nella prima fase), poi si è consolidato attorno a gruppi dirigenti ex dc e ex psi, a cui si sono aggiunti dopo l’annessione di An, quelli che provenivano dal Msi. Modello liquido, con qualche consolidamento correntizio, ma soprattutto modello a termine in quanto legato al successo del capo. Il modello leghista è stato tradizionale e territoriale con un vertice indiscusso, fino al “colpo di stato” di Maroni e dei suoi barbari sognanti, in cui dominava il cerchio magico.
Il nuovo movimento di Grillo è a maglie larghe e strutturato sulla rete ma è a comando rigido con un leader visibile, una specie di speaker, e un leader reale, il Gran Suggeritore che decide parole d’ordine e carriere. Non so quanto siamo, tutti questi, modelli democratici. A questi ci si deve ispirare? Lo stato dell’arte dice che ora a sinistra c’è l’incertezza assoluta. Veltroni aveva in testa un partito plebiscitario in cui il cittadino elettore aveva in mano lo scettro e si riconosceva nella leadership. Più o meno era l’idea di Arturo Parisi. Da qui il primato assoluto delle primarie, scusate il gioco di parole. Il mondo di D’Alema e Bersani cerca invece di tenere assieme un partito più leggero, cioè senza grandi e costosi apparati, con l’insediamento territoriale e sociale e con il desiderio di restituire potere al militante iscritto rispetto all’elettore occasionale.
Per quanto siano diffcili da declinare in questo partito hanno un senso parole come identità, radicamento, e soprattutto sinistra. Come si vede da questa sommaria descrizione sono tutte ipotesi in campo. Ciascuno scelga la sua. La mia curiosità si esercita sull’ultima ipotesi che ha poco a che spartire con la parrocchia e con il partito di quadri e molto assomiglia a quel che leggo accade nelle grandi socialdemocrazie ed è accaduto a Barack Obama secondo quanto racconta il direttore del New Yorker, David Remnick, biografo del presidente e narratore della sua prima iniziazione politica. Dopo questo sermone sono pronto a farmi ridefinire antico, passatista e anche comunista. Ma vi garantisco che non mi importa molto. Scambio tessere con idee anche io, purchè le idee non siano quelle che stanno distruggendo la politica fingendo di rinnovarla. Vogliamo parlare di come si parlava di modernità all’inizio della seconda repubblica a fare un bilancio di ciò che è vivo e ciò che è morto?