Visto in mezzo alle altre foto di Doisneau dove il fotografo francese mostra una Parigi più oscura e adulta in cerca di peccato, il bacio dei due fidanzati parigini, quel momento di intimità alla luce del sole, fugge dal clichè dolciastro in cui è stato incasellato dopo mille e mille riproduzioni in tutte le salse. E così quella foto assunta a classica romanticheria da Baci Perugina (e che non poteva essere il manifesto della mostra in corso a Roma) ridiventa l’icona di un tempo, la spensieratezza ritrovata nel dopoguerra, l’azzardo del bacio in pubblico, la gente intorno che cammina veloce e non più sotto le bombe. “Grazie al continuo strusciarsi contro l’arredo urbano i parigini hanno conferito alla città quella patina che abbiamo finito per amare” ha detto una volta Doisneau e quei due ragazzi non fanno eccezione. L’originale lo hanno battuto all’asta per 184.960 euro nel 2005. A dire il vero tanto originale non era. Doisneau rivelò, non senza una punta di malizia (“non avrei mai potuto fare uno scatto del genere, perché raramente chi si bacia in mezzo alla strada è una coppia legittima”) che per ottenere l’attimo giusto aveva seguito per tutto il giorno una coppia di ragazzi mentre si baciavano in giro.
Guardando la foto di Doisneau appesa alla parete mi è tornato in mente un altro bacio famoso, un’altra foto simbolo, stracitata dai musical fino ai Lego: il bacio della Vittoria, quello tra un marinaio e un infermiera, scattato cinque anni prima di Doisneau, il 14 agosto del 1945 a New York per celebrare la vittoria sul Giappone e la fine della guerra. Stavolta non è un bacio d’amore, è un bacio che esprime “la gioia di una nazione nel momento del trionfo”. In strada ci sono due milioni di persone, lo scatto della Leica di Alfred Eisenstaedt che finirà su Life equivale a “In the mood “di Glenn Miller. Come per la foto di Doisneau anche questa sembra fatta apposta per un’accusa di posa, ma del bacio della Vittoria esiste anche un’altra foto che finisce sul NYT, la scatta Victor Jorgensen, fotoreporter per la marina.
Per coincidenza giorni fa, a distanza di 67 anni dalla foto di Eisenstaedt, un sito femminista americano ha contestato la troppa esuberanza del marinaio tacciandola di molestia sessuale. E dire che c’è sempre stata la fila per accreditarsi come il marinaio (per Ernst Dubay quella foto segnava il tempo della sua vita) e l’infermiera della foto e che al momento dell’incontro dell’agosto scorso tra i presunti e anziani protagonisti non c’è stata alcuna recriminazione. Per fortuna nessuno all’epoca ha mai voluto mettere i braghettoni al bacio di Doisneau, ci manca solo che venga bandita a posteriori l’euforia dell’uscita dal tunnel costato milioni di vite umane. La maggior parte degli istanti importanti della vita non vengono fotografati, e quei pochi neanche arrivano a sognare una vaga idea di celebrità. A volte il pudore vince su tutto, sul narcisismo come sull’importanza del momento. E allora è bene non buttare via certe foto per chi non ha potuto mai gioire e per chi è rimasto in silenzio nell’ombra per 40 anni con una storia tragica e incredibile.
Sono passati quindici anni dal settembre del 1997 quando una sera alla mostra di Erich Hartmann intitolata “Il silenzio dei Campi” (sempre al Palazzo delle Esposizioni) incontrai un signore di nome Shlomo Venezia, che da solo, armato di pazienza, sorvegliava gli sguardi dei pochi presenti sulle foto dei resti dei campi di sterminio. Shlomo Venezia è morto il primo ottobre. Molti gli articoli di cordoglio che hanno ricordato la scomparsa dei uno di pochi Sonderkommando sopravvissuti ad Auschwitz-Birkenau. Ovviamente di Shlomo esistono solo foto al servizio della memoria (come quella con Benigni sul set de La Vita è bella), ovvero della sua generosa vecchiaia spesa ad accompagnare studenti in Polonia. Il suo volto imperturbabile davanti a un microfono, la sua sagoma in piedi a spiegare e ricordare. Dello Shlomo come lo conoscevo io, da quella sera in cui diventammo amici, il suo negozio a Fontana di Trevi, la moglie, i figli e l’orgoglio per i nipoti, la sua gentilezza, della vita ricostruita da capo dopo aver perso quasi tutta la famiglia non ci sono immagini.
Teniamoci stretto quel marinaio.