Marta che guardaReality, di Matteo Garrone

Luciano Ciotola è un pescivendolo di Napoli, ha una moglie, tre figli piccoli, un parentado vasto, rumoroso e partecipe. Per arrotondare il suo guadagno si inventa un espediente che coinvolge molti...

Luciano Ciotola è un pescivendolo di Napoli, ha una moglie, tre figli piccoli, un parentado vasto, rumoroso e partecipe. Per arrotondare il suo guadagno si inventa un espediente che coinvolge molti abitanti del suo quartiere (Spaccanapoli?). Tutto sommato è un uomo felice: allegro e anche un po’ istrione. Tant’è che, spinto dalla sua famiglia, fa un provino per entrare a far parte del Grande Fratello. Piace e viene chiamato a Roma, dove ha un lungo incontro con la produzione della trasmissione televisiva. Quando torna a Napoli, è accolto come una star dai suoi condomini affacciati al balcone su un cortile di un palazzo fatiscente che si fa teatro.
A questo punto, Luciano inizia a credere davvero di poter diventare come Enzo, un napoletano che vip lo è sul serio grazie al GF e che ha incontrato qualche volta a grottesche feste di matrimonio dove Enzo era l’Ospite e pronunciava frasi fatte, sempre le stesse (“non è la sposa più bella del mondoooooooooo?” “non abbandonate mai i vostri sogni” “never give up”). Solo che Luciano ci crede troppo. E finisce con lo sviluppare una paranoia bipolare e delirante che lo porterà alla follia.

È bello il film di Matteo Garrone. Visivamente è perfetto, con quei colori saturi in ogni situazione dove trionfa il sogno (dal centro commerciale al parco dei matrimoni, alla piscina con gli scivoli) e quei colori sbiaditi e cupi dove invece vive una realtà ben più modesta (gli interni delle case, il mercato, il bar). È perfetto anche nel mostrare la Napoli più popolare, dove le ragazze portano in giro le loro strabordanti rotondità con animo fiero, dove l’eleganza è sinonimo del trash più spinto, dove si urla, ci si tocca, ci si intromette, ci si scontra, ci si abbraccia ma alla fine si sta tutti insieme, uniti, nella buona e nella cattiva sorte.
Ci sono momenti di cinema altissimo: il piano sequenza iniziale, per esempio, o la festa di matrimonio, come se Fellini si fosse spostato a Napoli. Sono indimenticabili le facce degli attori, come spesso succede con i napoletani: Aniello Arena, il protagonista che si è formato come attore nel carcere di Volterra, ma anche Loredana Simioli, che è la moglie di Luciano, così dolce, solidale e poi atterrita. Ho amato molto anche Nando Paone, l’amico buono di Luciano, intenso ed elegante, a suo modo. Ma poi anche tutti i parenti, la zia, lo zio, la madre, il giovane barista entusiasta Ciro Petrone, che avevamo già visto in Gomorra.
Complimenti a Garrone, insomma. Anche se qualcosa che non convince c’è.
Qualcosa di stonato, che non è subito chiaro. Forse il fatto che il film arriva con un paio di anni di ritardo, perché mi sembra di poter dire che questa fascinazione cieca per il mondo dei reality sia ormai in via di esaurimento, oggi. Il pubblico non li ama più come prima e infatti è notizia di pochi giorni fa la sospensione per il 2013 dell’Isola dei Famosi e pure del Grande Fratello, la cui ultima edizione è stata un mezzo flop. Evidentemente ora premono altri problemi, urgenti, disperanti, e la gente a sogni così effimeri non crede più. Quel mondo finto, scintillante, inconsistente non incanta più. E quindi la storia raccontata da Reality oggi appare non più così credibile.
Ma poi ho pensato che invece questo film non vuole raccontare la follia e la devastazione a cui può portare la voglia di sognare un successo facile, fondato solo sull’apparire.
C’è un’altra lettura possibile, che pone il film in una dimensione metaforica ancora più spinta: Reality racconta il fallimento di questi anni berlusconiani, dove si voleva credere che la felicità fosse tutta nello scintillare di paillettes delle ragazze in tv, nelle tartarughe al vento di tronisti incalliti, nei seni rifatti, nei soldi facili, a portata di mano senza che fosse necessario possedere alcun talento o preparazione (Minetti docet).
Alla fine, di quel sogno, nel film come nella realtà, non resta che solitudine e povertà: e la scena finale, che fa il paio con il piano sequenza dell’inizio, ribadisce proprio questo. Siamo tutti soli, quelli che stanno fuori dalla casa del grande fratello, ma anche, e soprattutto, quelli che stanno dentro.

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