“Umanesimo non è se non la ritrovata dignità dell’uomo, la quale a sua volta non è se non la libertà di pensare col proprio cervello”. (Alberto Savinio)
Cosa significa oggi “essere in rete”? Creare, consumare contenuti, curare il personal branding, aggiornarsi e stare sul pezzo, esprimere opinioni, essere attivi sui social media, divertirsi, forse lavorare, vendere, essere pagati oppure no. Vuol dire tutto questo e molto altro, con una marea di definizioni diverse spesso incoerenti ma, se scaviamo più in profondità, il significato è connaturato alla persona, dalla definizione degli obiettivi e dalla rete sociale d’influenza. Online siamo ciò che condividiamo, siamo i nostri errori in tweet e status, attaccati a metriche fumose e manipolati da nodi d’interesse (di relazioni) più grandi di noi. Reputazione fatta di azioni che impatta nella vita reale, anzi che “è reale”, più di quanto possiamo descrivere attraverso titoloni e biografie blasonate.
Oggi costruire una presenza online diventa determinante, l’enorme produzione di contenuti ed opinioni però non è destinata solo ad alimentare l’ego da web star, la nuova industria culturale o lo storytelling aziendale, ma anche le nostre menti e le nostre coscienze. Scrivere per esempio è raccontare, condividere un’informazione, un pezzo di sé per offrirlo e negoziarlo con gli altri. Gesto solitario, ricco sfumature che alimenta connessioni e connettività se collegato alla rete. Avere un blog significa formazione personale ma anche apprendimento convalidato dagli altri, non aver paura di rispondere, costruire e condividere la propria opinione per modificarla cambiarla e costruirla ancora.
“La presenza in Rete di ciascuno di noi ha senso se quel tempo speso a navigare viene usato per migliorare la nostra umanità”; scrive Marco Freccero e io concordo con lui. La rete oggi ci offre grandi possibilità a patto di saperle cogliere, usare canali e strumenti, coltivare connessioni senza perdersi in mezzo alla marea di occasioni. Su Twitter avere molti follower conta poco o nulla se non si conoscono i meccanismi del mezzo. I social media sono canali dinamici che pervadono la vita di tutti i giorni, da usare con estrema umiltà e al contempo estrema brillantezza (o “smartitudine riflessiva”) soprattutto se si utilizzano account aziendali. Contesti, quelli social, dove la condivisione trasforma un certo di tipo di “conoscenza fruibile” in commodity, dove la saggezza deve esser coltivata ogni giorno attraverso la pratica. Esperienza e umiltà che a volte mancano a “personaggi”, giornalisti, o presunti community manager dietro di loro, come testimoniano casi grossolani come quello di Gasparri, il super troll Formigoni o il recente minifail #poernano di @Job24 de Il Sole 24 Ore.
Un passaggio a due vie: dalla rete alla vita di tutti i giorni e viceversa, con nuove abitudini, terminologie e occasioni di networking; dove l’ibridazione di contenuti e contenitori si manifesta nella quotidianità in tempo reale, con maggior frequenza e intensità. Le possibilità e le variabili davanti ai nostri occhi si moltiplicano, mentre ci adattiamo, startuppiamo le nostre menti a nuove idee, sensazioni e scelte. C’è chi lo fa più in fretta, chi meno, la rete catalizza questo processo a patto di saperla usare come un media attivo, partecipativo.
Qualità pratica, ecologia della comunicazione, riflessione e sincerità, questi sono alcuni principi di un umanesimo digitale quanto mai auspicato, che metterà al centro della rete e della comunicazione le persone non le piattaforme, la creatività non la conoscenza, con contenuti e reti sociali che influiranno sulla vita e sui rapporti personali di ognuno di noi. Un futuro possibile se svilupperemo maggior senso critico (compiuto, non smanioso di epic fail) grazie ai social media nei contesti sociali (reali).