Ho provato in tutti i modi a catalogarli sotto un qualsiasi genere musicale ma sembra proprio che l’universo degli Underdog sia totalmente estraneo alla semplificazione.
E’ uno di quegli ibridi che fanno la differenza, questa esuberante band di Tivoli, composta di sette elementi, Diego Pandiscia, voce e bassocontrabbasso elettrico, Barbara “Basia” Wisniewska, voce, Alberto Fiori, piano, Francesco Cipriani, chitarra e “giocattoli vari” come la diamonica, Michele Di Maio, violino, Alberto Vidmar, trombone, e Fabio Mascelli, batteria, ognuno dei quali proveniente da mondi musicali differenti.
Non puoi definirli jazz perché improvvisamente ti ritrovi a un concerto noise, quasi funk metal alla Primus, non puoi dire nemmeno che sono swing o be-bop, finché la cantante non riprende in mano il microfono e comincia uno scat. Post punk? Naaa, troppo semplice. Progressive allora? Non azzardatevi a dirglielo! Ma la loro composizione musicale nasce come una convergenza di background che amabilmente trovano un equilibrio nello squilibrio. Gli Underdog sono decisamente tra le migliori proposte musicali attuali. Partecipare a un loro concerto ti fa totalmente dimenticare di vivere nell’epoca di Sanremo e dell’Indie Rock. Il prodotto Underdog è un qualcosa che va consumato periodicamente per evitare di soccombere sotto la schiacciante massa di gruppi musicalmente anonimi che, da quando esistono le lezioni di chitarra su youtube, e dopo l’imbarazzante proliferare di talent show hanno invaso la scena musicale con produzioni tutte uguali.
Sicuramente c’è la sperimentazione e la psichedelia, l’alternative rock, il be-bop, azzarderei anche un po’ di minimal music dei primi anni dopo gli intermezzi in cui Basia, la cantante, usa la sua splendida voce come un vero e proprio strumento, riportandoci su un emisfero più placido. Ma questo vale finché non torna in scena Diego Pandiscia, che “slappando” sul basso alimenta la frenesia del noise con la sua rugginosa voce meccanica effettata, che propone in chiave quasi rap.
Ieri sera hanno presentato, in un Circolo degli Artisti invaso da una folla di appassionati, il primo singolo, “Empty Stomach“, estratto dal nuovo album in uscita a Novembre “Keep Calm“, prodotto e promosso da MarteLabel e Altipiani.
Ho avuto l’opportunità di intervistarli, quindi vi riporto fedelmente quanto ci siamo detti nella mezz’ora prima del concerto.
Quando vi siete incontrati, Underdog?
“Nel 2004 eravamo in tre o quattro e, dato che non avevamo un cantante, mi sono preso l’ingrato compito di provare a cantare, o di fare un po’ il pagliaccio per sopperire a questa mancanza. Poi, dopo sei mesi, è arrivata Basia, e con lei altri musicisti interessati al progetto, e hanno chiesto di interagire con la band. Questo è stato molto positivo perché ci ha dato la possibilità di scoprire sonorità nuove. Abbiamo aggiunto un violino, un trombone e altri strumenti, come il vibrafono, che entravano e uscivano dalla formazione”.
Il primo disco?
“Nel 2009, dopo la partecipazione al Mei, il Meeting delle Etichette Indipendenti che ci ha dato la possibilità, grazie al premio ‘Miglior videoclip’, di firmare un contratto discografico con Altipiani Records in cooproduzione con MArteLabel. Si chiama ‘Keine Psichotherapie‘ che significa ‘niente psicoterapia’, data la difficoltà incontrata per mettere d’accordo sette persone nella produzione dell’album.
Chi è il capo della band?
“Siamo molto democratici, non c’è un leader che decide le canzoni. Prima venivamo da un nucleo piccolo che poi si è espanso, quindi, alla fine, non era difficile trovare un punto d’incontro. Ora sono quattro anni che suoniamo in sette e ci distruggiamo in sala prove per arrivare alla ‘canzone che piace a tutti e sette’. Che sembra una cosa facile, invece non lo è per niente. Abbiamo iniziato nel 2009 e solo nel 2012 siamo riusciti a concludere la produzione del nuovo disco”.
Immagino i vostri gusti musicali…
“Ascoltiamo tutti musiche completamente diverse. Lui mi dice i nomi dei suoi gruppi preferiti e io non li conosco, io gli dico i miei e lui non ne sa nulla, quindi metterci d’accordo è proprio difficile!”.
Il disco che uscirà a Novembre è contaminato da una moltitudine di stili differenti. Potremmo catalogarvi sotto il progressive rock, dato che dentro alle vostre composizioni c’è di tutto, dal jazz, alla bossa, all’industrial rock?
“Per assurdo non ascoltiamo gruppi che sono dentro il progressive però sì, il progetto nasce vicino Roma, a Tivoli, dove suonavamo con persone provenienti da formazioni diverse, quindi, se io vengo dal noise e il batterista dal jazz, per forza di cose si deve cercare di trovare un punto in comune. E quel punto d’incontro è diventato il nostro marchio di fabbrica, la nostra formula chimica che riesce ad amalgamare un po’ le cose che vengono proposte dai vari membri della band”.
E quindi, come si fa a dire a quale genere appartenete?
A questa domanda, scoppiano a ridere. “Entriamo in crisi quando ce lo chiedono”, si giustificano.
C’è un po’ di tutto dentro…
“E infatti il problema reale all’inizio era proprio questo. Prima di arrivare a una certa notorietà, non riuscivamo a trovare un mercato che fosse nostro. Andavamo a un festival jazz e tutto andava bene finché non entravo io urlando con la voce effettata. Partecipavamo a un festival rock ma poi c’era il momento calmo jazz e i ventenni s’annoiavano. Quindi, fondamentalmente, il concetto è questo: non riusciamo a catalogarci!”.
Anche Frank Zappa, faccio un nome a caso, non si è mai identificato con nessun genere in particolare…
“E infatti per noi l’approccio alla musica è questo. Non siamo il gruppo che si è seduto a tavolino e ha detto ‘ facciamo jazz, rock o reggae’, anche perché era impossibile, ci saremmo ‘scannati’ dopo un minuto!”.
E perché preferite cantare in inglese?
“Le prime prove degli Underdog erano in inglese perché Basia era appena arrivata dalla Polonia per l’Erasmus, poi l’abbiamo incastrata per otto anni, ma questo è un altro discorso. Musicalmente l’inglese all’inizio si prestava meglio, anche perché gli ascolti venivano principalmente dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. In ‘Keep Calm’, c’è un pezzo in italiano, che però ha il titolo in rumeno, ‘Macaronar‘, perché ‘vaff****o’ siamo in un paese fascista, quindi, il primo pezzo italiano degli Underdog deve essere in rumeno, così accettate il fatto che l’Italia è ormai diventata un meeting pot, non facciamo finta che siamo italiani doc!”.
Avete anche una cover nel nuovo album. “Cuore matto” di Little Tony…
“Perché anche Little Tony, anzi, Antonio Ciacci, è di Tivoli, quindi andava fatto. L’abbiamo pensato dopo la finale del Primo Maggio , dove c’eravamo resi conto che il nostro problema era che cantavamo in tutte le lingue tranne l’italiano. Quindi Ci siamo detti, ‘facciamo la cosa grezza’! Vogliono qualcosa in italiano, allora scendiamo nel panorama dei pezzi pop storici e scegliamo Tivoli, Cuore matto, papà Tony”.
“Jackie the Priest” parla delle persone che dovremmo conoscere. Quali sono?
“Quelle che stanno ai margini di questa società. I primo disco l’avevamo pensato sul concetto del clown ubriaco, il fallito, l’artista che finisce sul marciapiedi a fare il mimo piuttosto che sui grandi palchi, anche perché quando inizi passi per forza di cose da lì. E invece questo ultimo non c’è stato uno studio dietro. Spontaneamente sono uscite le persone che hanno avuto un vissuto negativo e pesante, quindi con un esperienza che, in teoria, in questa Italia del finto benessere e della mediocrità, dovresti conoscere”.
E gli Underdog, sono dei borderline?
“All’inizio della nostra storia stavamo leggendo l’autobiografia di Charles Mingus, ‘Beneath the underdog’, ‘peggio di un bastardo’. Lui aveva, come musicista jazz, il problema di essere un mulatto, quindi troppo bianco per i neri e troppo nero per i bianchi. Anche noi ci siamo trovati in questo limbo in cui non riesci a venderti a nessuno perché non sei omologabile, quindi alla fine non riesci a trovare una strada tua.
Mingus scrisse, durante il periodo del Movimento dei diritti civili afroamericano, un pezzo contro la discriminazione dove inveiva contro i “cops”…
“Noi abbiamo un pezzo che si chiama ‘Revolution is subject to delay‘, ‘la rivoluzione subirà un ritardo, ci scusiamo per l’inconveniente’. La prima volta che l’abbiamo presentata eravamo al Jarmusch di Caserta. A un certo punto arrivano i carabinieri perché era tardi e dovevamo smettere di suonare. Finiamo di suonarla e un carabiniere da lontano inizia ad applaudirci. Se solo avesse saputo di cosa parla…”.