Tre anni fa si è spenta a Milano Alda Merini, anima indocile della poesia italiana che fino alla fine dei suoi giorni non ha mai smesso di fumare e di sperare.
La poetessa dei Navigli, nata il ventuno a primavera, innamorata della vita e ancor più dell’amore, vezzo che si è concessa senza indugio fino alla fine, scriveva di non sapere che nascere folle / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta.
Se non una tempesta, è stato un percorso inquieto e tormentato, quello della sua vita, segnato da una lunga permanenza nella clinica Villa Turro a Milano a causa del disturbo bipolare, un malessere che la poetessa stessa riconosceva come una serie di “ombre nella mente”.
Genio instancabile, mente brillante corrotta dal germe della follia, in un’intervista risalente a pochi anni prima della sue morte, affermava di innamorarsi ancora, e ancora di frequente, e di trovare continua ispirazione nell’amore.
Ci sono adolescenze che si innescano a novant’anni, scriveva. E senza alcun imbarazzo, ammetteva inoltre di aver sofferto, anche in età matura, per illusioni e feroci delusioni.
Unico lusso al quale osava abbandonarsi, una vita vissuta senza mai nascondersi, con coraggio e sfrontatezza.
Negli ultimi anni, trascorsi a combattere con la malattia e una quotidianità ai limiti dell’indigenza, aveva maturato un’affezione particolare per le cose semplici che fanno parte della vita di ogni giorno, quelle piccole cose che – a detta della Merini stessa – fanno in fondo la differenza.
A tre anni dalla sua scomparsa, non c’è modo migliore per ricordare questa grande donna, che non sia andare a rileggere alcuni dei suoi versi.
Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.
(da “Clinica dell’abbandono”)