Marta che guardaAlì ha gli occhi azzurri, di Claudio Giovannesi

Credo lo si possa affermare senza remore che il cinema italiano sta vivendo un momento di grande vitalità. Che sta producendo film di tutto rispetto: originali, coraggiosi, coinvolgenti. Perfino me...

Credo lo si possa affermare senza remore che il cinema italiano sta vivendo un momento di grande vitalità. Che sta producendo film di tutto rispetto: originali, coraggiosi, coinvolgenti.
Perfino meglio, udite udite, di titoli francesi che magari hanno sbancato i botteghini
E non sto parlando del cinema ormai d’autore, da Bernardo Bertolucci a Paolo Sorrentino a Matteo Garrone.
Sto pensando a piccoli film realizzati con pochi soldi, ma che si sono rivelati essere veri gioiellini, anche se distribuiti e promossi poco e male, purtroppo.
Sto pensando, per esempio, alle opere prime o seconde di autori giovani, a una commedia intelligente e poetica come Into Paradiso di Paola Randi, uscita ormai due anni fa e scomparsa troppo in fretta dalle sale (chi non lo avesse visto dovrebbe davvero procurarselo), a film che ti mostrano realtà scomode come L’Intervallo di Leonardo Di Costanzo o Gli equilibristi di Ivano De Matteo. Sto pensando anche all’ultimo uscito, Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, premio speciale della giuria al Festival di Roma che si è concluso lo scorso weekend.
Ambientato a Ostia, il film segue le vicende di Nader, un sedicenne nato in Italia da famiglia egiziana musulmana, che si trova ad affrontare la complessa situazione che vivono i giovani figli di immigrati, divisi tra la cultura dei genitori e il loro sentirsi italiani a tutti gli effetti. Nader trascorre le sue giornate tra la scuola, le preghiere in Moschea, alcune rapine, qualche rissa, la discoteca e l’amore tenero e appassionato per la sua ragazzina. Il suo dramma esplode proprio quando si mette insieme all’italiana Brigitte, cosa proibita dalle regole dell’Islam e che provoca l’ostracismo della sua famiglia.
Giovannesi è moto bravo a dipingere un affresco della società multietnica in cui ci muoviamo, dove italiani, romeni, egiziani, filippini, cinesi vivono e crescono fianco a fianco, con l’inevitabile complessità che questa convivenza comporta, perché ogni etnia porta con sé regole etiche, sociali e religiose molto diverse. Gli scontri, infatti, non sono solo tra le consuetudini italiane e quelle dei nord africani, ma anche tra quelle di questi ultimi e quelle degli altri gruppi etnici. È un affresco, Alì ha gli occhi azzurri (titolo che richiama una raccolta di poesie di Pasolini), ma anche un ritratto delicato e partecipe del dramma di ogni personaggio, che viene dipinto con ricchezza di sfumature.
Nader è un bulletto, ma anche un ragazzo che ha un nobile senso dell’amicizia, un adolescente innamorato capace pure di mettere in scena un incontro d’amore tenerissimo sulle note di uno sdolcinato Gigi d’Alessio (più italiano di così?!?). È un ragazzo che vuole vivere la sua sessualità come i coetanei italiani, ma non riesce a concepire che la stessa libertà possa essere concessa a sua sorella. È orgoglioso della sua religione, ma si mette lenti a contatto azzurre per assomigliare a chi ha sangue europeo.
Lo sguardo partecipe di Giovannesi e la sua cinepresa ossessiva non si concentrano, però, solo su Nader. Sono commoventi anche i ritratti del padre e della madre di questo ragazzo e della loro sofferenza nel vedere il figlio amatissimo ribellarsi alle loro regole antiche. E ti verrebbe voglia di abbracciarla quella madre in lacrime e quel padre stanco, che lavora notte e giorno da un benzinaio. Ma il regista dedica a tutti i personaggi minori del film pennellate che incidono in profondità: dal cugino più grande di Nader, che rivela a un certo punto la sua solitudine e la sua omosessualità, al compagno di classe romeno, schiacciato tra la solidarietà verso i suoi amici di scuola e quella verso i suoi connazionali in cerca di vendetta.
Non è finita: un altro merito di questo film sta nel ritmo drammaturgico, che ha infatti un crescendo lento e costante, capace di tenere alta l’attenzione, senza sbavature, fino alla tensione finale.
E la scena consclusiva, così domestica e malinconica, non dà soluzioni, non offre spiegazioni: ti lascia con i mille interrogativi posti dal film, così come deve fare il cinema “impegnato” oggi, e la consapevolezza che, nel bene e nel male, le sfide che la nostra società deve e dovrà affrontare sono quanto mai complesse, articolate e, sicuramente, non indolori.

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